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Non Vedenti, Braille e Tecnologie di Stampa

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La Prima Notte in Istituto - Da “Un Cieco che Vede” del prof. Antonio Greco

Pubblicato il 03/03/2021 08:00 
 

I dormitori erano al secondo piano. Erano divisi in tre categorie: il dormitorio dei grandi, un lungo androne di circa venti metri con due file di lettini, l'una di fronte all'altra; il dormitorio dei mezzani, dove fui condotto io, sala un po' più piccola, ma abbastanza lunga pure questa, e il dormitorio dei piccoli, diviso dal nostro da una stanzetta adibita al bagno e ai lavabo. A me fu assegnato il secondo lettino, entrando a sinistra. Mi fornirono la biancheria intima col numero 23. Mi misi a letto; ci fecero recitare altre preghiere, tra le quali: "Angelo di Dio, che sei il mio custode....". Poi in tutta la camerata fu silenzio.

Io non riuscivo a prendere sonno. Pensavo a casa mia, a mia madre, a Rocco e a Narduccio che spesso si addormentava coccolato da me. Sapevo che mio padre, anche se soffriva, non dimostrava, ma gli altri? Pensavo ai miei giocattoli che avevo appeso al chiodo, come se a casa non dovessi più tornare. Mi chiedevo: che cosa imparerò qui in Istituto? Sarò bravo ad apprendere come lo ero stato durante il corso di preparazione alla Cresima e alla Prima Comunione? Chi sa se a casa mia sono andati già a letto? E riusciranno a dormire senza di me? Quanti ragazzi che non vedono! Pensavo di essere uno tra i pochi, invece..... Ma evidentemente, mentre mi sacrificavo in questi pensieri, mi addormentai. Ricordo che sognai carretti, la casa di campagna, pecore, alberi di olivo con nidi di gazza sulle cime, Narduccio vestito con vestine lunghe, lunghe, e confusamente altro che passava sullo Schermo senza nessi logici, ma alla rinfusa, da un fotogramma all'altro. Sognai la Tavoletta Braille e figure che scorrevano rapidamente in una confusione senza logica.

La mattina seguente fummo svegliati dal campanello alle ore sei. Recitammo la preghiera di ringraziamento e ciascuno di noi si recò a curare l'igiene. Dopo un'ora circa ci misero in fila e ci condussero in chiesa per la Santa Messa che veniva celebrata ogni mattina per tutta la settimana. Era cominciata la Novena di Natale e in chiesa un coro, accompagnato da un armonium, eseguì bei canti natalizi. Dopo la messa andammo a fare colazione. Qui la mia prima sorpresa: trovai un bel recipiente quasi pieno di latte caldo, con accanto il pane per la zuppa. A casa mia il latte era un lusso che si prendeva solo quando qualcuno non stava bene. Consumai quella zuppa con tanto Gusto, nel boccalino di metallo poggiato su una lunga tavola di marmo sostenuta da un robusto telaio in metallo. Recitate le preghiere, ci avviammo al primo piano dove c'era la Scuola elementare. Alle otto e mezza si entrava in classe. Io fui condotto al pianterreno nella prima classe elementare, insieme con altri compagni. La maestra mi venne incontro, mi prese per mano e, mentre mi conduceva al mio posto, mi rivolgeva domande più per togliermi dall'imbarazzo che per altro. Qui conobbi alcuni dei nuovi compagni di classe: Antonio Spezzaferri, Domenico Calculli, Enzo Màrando e altri. Io mi trovai come un pesce fuor d'acqua, in quanto gli altri avevano frequentato già per quasi tre mesi e per me, invece, era solo il primo giorno: 17 dicembre 1938. La maestra, molto persuasiva e affettuosa, cominciò a impartirmi i primi insegnamenti che io, con sete di apprendimento, facevo miei. Riusciva ad instaurare il dialogo con noi con una semplicità ammirevole. Spezzaferri era uno di quelli che partecipava più di altri. Io, nuovo in quell'Ambiente, ero ancora timido e riservato. Ma col passare dei giorni anche io mi amalgamai nella classe ed ero contento di apprendere. La maestra ci poneva domande su che cosa avremmo voluto fare da adulti. Spezzaferri diceva che voleva fare l'avvocato, come poi avvenne. Io dicevo che volevo fare il Musicista.

Ma torniamo al primo giorno di Scuola: gli altri fecero un "dettato"; io, invece, mi divertivo a punteggiare una paginetta. Ero seduto davanti a Spezzaferri con Màrando. Vi erano due file di banchi: la nostra e quella delle bambine, sulla nostra destra, cinque o sei in tutto. Si arrivò così alle 12,30, fine delle lezioni. Ci incontrammo nuovamente tutti in refettorio per il pranzo. Di sabato ci servivano pasta in brodo e carne per secondo con la relativa frutta e sempre il pane. Il tempo era cattivo, faceva freddo e non c'era il sole; perciò dopo il pranzo ci fecero trattenere nelle sale di ricreazione al chiuso. Passai quel pomeriggio di sabato come quello precedente. La sera andammo a letto più contenti per l'arrivo della domenica che era attesa con molta ansia, perché non si andava a Scuola e ci si poteva divertire tutto il giorno. Ma anche la domenica il tempo era inclemente. Dovemmo adattarci al coperto ingannando le ore coi canti, racconti, piccoli giochi ed altro. Arrivò l'ora del pranzo e ci recammo tutti "a tavola". Altra sorpresa: un bel piatto di pastasciutta per primo e cinque polpette di carne macinata belle e grosse al sugo per secondo, con pane e frutta. Io, che ero un gustaio e consumatore di pastasciutta, fui particolarmente soddisfatto. Ma non avevamo ancora finito di pranzare che Luigi, il portiere, venuto in sala da pranzo: - Lu Grecu allu parlatoriu! - Gridò. La signorina Formica mi accompagnò e chi trovo? Rocco e la zia Lucia. Mi abbracciarono e Rocco mi disse che era venuto per condurmi a casa, chè non voleva lasciarmi solo. La signorina lo rassicurò che stavo bene e che non doveva nulla temere; poi ci lasciò soli. Mio fratello era commosso e piangeva. Io, invece, tutto contento, gli dissi che stavo abbastanza bene e che giocavo, mi divertivo, al pianoforte. E che poi proprio allora avevo finito di consumare un pranzo che a casa nostra nemmeno nei giorni di festa si poteva prendere il lusso di prepararlo. Riuscii a rinfrancarlo. Si tranquillizzò e gli tornò il sorriso sulle labbra. Chiesi con che mezzo erano venuti, e mi dissero che si erano serviti di una sola bicicletta, nonostante fuori cadesse nevischio e facesse molto freddo. Chiesi notizie di tutti, ma in particolare di Narduccio. Furono più contenti quando la signorina Formica, che intanto era tornata, ripetè loro che il prossimo venerdì 23 potevano ricondurmi a casa per le vacanze natalizie. La zia mi disse che Rocco, la sera della mia partenza, voleva venire a Lecce per riprendermi, perché temeva che io mi potessi trovare in grandi difficoltà, in quanto, senza la Vista, mi sarebbe potuto capitare qualche grande guaio. Non voleva andare a letto. Steso per terra si contorceva per il grande dolore della mia assenza. Aveva sofferto fino a questo momento del nostro incontro e ora, finalmente, poteva tornare a casa più tranquillo e più rinfrancato. Ci congedammo con il loro impegno di salutarmi amici e parenti. Tornato tra i miei compagni, riprendemmo i nostri passatempo.


I capitoli tratti dall'autobiografia "Un Cieco Che Vede" del prof. Antonio Greco, vengono pubblicati con l'autorizzazione dell'autore. Per contattare il prof. Antonio Greco e per informazioni sull'opera completa si può Scrivere a griconio@gmail.com