DiGrande.it

Non Vedenti, Braille e Tecnologie di Stampa

Questo sito usa Cookie per personalizzare contenuti e annunci, fornire funzionalità per social media e analizzare i collegamenti. Chiudendo questo banner o continuando la navigazione acconsenti al loro uso.
Leggi la Cookie Policy di DiGrande.it

La Mia Prima Fisarmonica - Da “Un Cieco che Vede” del prof. Antonio Greco

Pubblicato il 12/05/2021 08:00 
 

Napoli fu veramente una parentesi per me. Mentre a Bologna avevo incontrato tanti vecchi compagni dell'Istituto di Lecce, a Napoli trovai ad accogliermi e a farmi festa, soltanto Antonio Spezzaferri, anch'egli sfrattato da Bologna.

Partii da Castrignano un pomeriggio di ottobre in compagnia di due miei paesani, studenti universitari: Uccio Donno, che mi sarà molto vicino anche in futuro, e Aldo Greco, entrambi iscritti all'Università di Napoli. Alla stazione di Napoli mi feci affidare ad un cocchiere di carrozza che doveva condurmi a Piazza Dante, sede dell'Istituto Martuscelli. Giungemmo a destinazione dopo l'una di notte, ma il portone dello stabile era chiuso, e al nostro bussare non dava segno di vita. Ma l'insistenza del carrozzaio ebbe ragione. Venne ad aprire un uomo che, saputa la ragione della nostra presenza, ci disse che l'Istituto si trovava ai piani superiori e che prima delle sette del mattino non si poteva accedere. Ci disse che egli si trovava lì, per caso, giacché stava visionando delle pellicole di films, essendo gestore del cinema Aurora che si trovava a piano terra. Il carrozzaio, un simpatico e buon napoletano, non poteva aspettare; il lavoro glielo impediva. Chiedemmo se mi faceva sostare su una poltrona del cinema fino al mattino, senza rimanere fuori. Accolse la nostra richiesta. Io pagai il mio casuale accompagnatore, che mi salutò con tanto calore, e presi posto su una poltrona della platea.

La mattina, avvertito dal gestore del cinema, venne a prelevarmi un assistente che, espletate le operazioni di rito, mi affidò al mio fedele amico Spezzaferri.

Venimmo iscritti entrambi al liceo-ginnasio Vittorio Emanuele II in via Roma per la frequenza della quinta ginnasiale. In classe trovammo bravi ragazzi che ci accolsero con tanta spontaneità e delicatezza. Ci sembrava di essere stati sempre in mezzo a loro. La prof.ssa Avorio chiese informazioni del nostro curriculum scolastico e ci augurò impegno e buoni frutti. Era molto cordiale, comprensiva, disponibile e simpatica. Mi chiese delle origini del mio cognome, e le spiegai che amavo molto Studiare il greco classico per scoprire meglio le origini della Lingua "Grica" che io ancora parlavo a Castrignano dei Greci. Si mostrò molto interessata, e nei giorni seguenti cominciò a mettermi alla prova. Mi disse che ero un "cannone" e che non dovevo suggerire ai compagni durante i compiti in classe o durante le interrogazioni.

Io svolgevo i compiti in classe, scrivendo la bella copia a macchina dattilografica, e la brutta in Braille. Per i compiti di latino e greco la prof.ssa mi metteva a disposizione, per l'uso del vocabolario, il compagno di banco, in quanto in Braille non si poteva disporre in classe di vocabolario, poichè la scrittura Braille è molto voluminosa e non permetteva il trasporto di vocabolari di sorta. Oggi le cose sono cambiate. Oggi col computer per noi non vedenti si fanno "miracoli". Si può correggere autonomamente, si possono usare dizionari che occupano lo spazio di un dischetto e tante e tante altre facilitazioni che oggi rendono molto meno difficoltoso Studiare. Ma torniamo alle memorie.

La nostra classe si trovava a primo piano. Ma per me, ormai non c'era nessuna difficoltà. Avevo localizzato l'Ambiente alla perfezione, e mi muovevo come se stessi a casa mia. Spezzaferri non era da meno, ed eravamo diventati quasi l'ammirazione di tutti per la nostra disinvoltura, capacità di movimento, prontezza di riflessi e serietà nello stesso tempo.

Un giorno, era di febbraio, avevamo compito in classe di Italiano. L'istitutore accompagna me e Spezzaferri nel cortile della Scuola tra i compagni e se ne va, come faceva, d'altronde, ogni mattina. Tutti i nostri compagni, col vocabolario sotto il braccio facevano ipotesi sulla traccia del tema. Due di essi più amici si avvicinano e ci propongono di marinare la Scuola e di fare una bella passeggiata lungo il mare. Noi, che eravamo assetati di libertà in quanto sempre chiusi in Istituto, accettiamo senza riserve. Di soppiatto, prima del suono della campanella, ci allontaniamo e prendiamo il largo.

Strada facendo, ai nostri due compagni viene un'idea: "Ci facciamo una passeggiata in barchetta?" Tutti accettano. Anch'io, riluttante, ma per non essere giudicato fifone e guastafeste, mi associo. Prendiamo la via della marina e ci fermiamo davanti a una barchetta ormeggiata sulla riva. Chiediamo al barcaiolo se poteva affittarla. Alla risposta positiva concordiamo il prezzo per un'ora. Egli, però, ci esorta a non allontanarci troppo dalla riva chè nel golfo c'è una certa corrente. Noi lo rassicuriamo e prendiamo posto nella piccola barca, lunga dai due metri ai due e mezzo, e larga forse un metro. Io e Spezzaferri ci sediamo l'uno di fronte all'altro sulle due assi di legno ai lati della barca. I nostri due compagni si assumono il compito di nocchieri e cominciamo la "sortita". La barca procede lentamente e leggere onde la sfiorano qua e là. Io di tanto in tanto ricordo ai miei Palinuri il monito del barcaiolo, ma essi vogliono imitare le imprese di Ulisse. Mi dicono: "Fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Proprio in quei giorni avevamo studiato a Scuola il passaggio delle "Colonne di Ercole" da parte di Ulisse nell'Inferno di Dante, e i miei naviganti scherzano sull'episodio.

Passata quasi una mezz'ora, si decide di invertire la rotta e di orientare la prua verso la riva, e qui comincia il "bello": la barca fa fatica ad avanzare per il vento e la corrente contraria. Qui comincia la sfida con le onde. Bisogna procedere a zig zag per vincere la resistenza del mare. Si avanza molto lentamente; però la riva è ancora lontana. I nostri compagni vogano con forza, ma improvvisamente un remo si spezza, lasciando uno di essi con un moncone in mano, poichè il resto era caduto in mare. "E ora che facciamo?" Dopo una breve consultazione, si decide di usare anche il moncone di remo per aiutarsi a governare il natante. Io, intanto, preoccupato e pieno di paura, tocco l'acqua ad una trentina di centimetri dall'orlo superiore della barca, abbastanza fredda, e mille pensieri si aggrovigliano nella mia mente. Se, mai sia, naufraghiamo, qui non ci salva nemmeno il Padre eterno. Intorno non si vede anima viva. Ma per fortuna la bravura dei nostri compagni ha la meglio sulle onde e, piano piano, dopo quasi due ore, riusciamo ad avvicinarci alla riva. Ora si presentava il problema del remo rotto, in caso il barcaiolo volesse essere risarcito.... Concordiamo tra di noi: quando siamo a tiro di Voce, di gridargli: "ci hai dato il remo rotto! Per poco ci fai rimanere in mezzo al mare"!

Ma egli con Voce tremante "Non me ne sono accorto, mannaccia a Maronna! sccusatemi"

I nostri compagni mettono i vocabolari sotto il cappotto, per paura che glieli sottraesse per rifarsi del remo; scendiamo dalla barca e molto in fretta ci avviamo verso la Scuola. Riusciamo ad arrivare appena due o tre minuti prima della fine delle lezioni; e quando l'istitutore viene a prelevarci, ci trova stanchi per il compito in classe svolto, e ci conforta.

Più di una volta marinai la Scuola, ma questa fu la più gloriosa.

Napoli era reduce dai danni della Guerra. Mostrava segni di ripresa, ma ancora le ferite erano troppo evidenti e stentava a riprendersi. Infatti sembra strano, ma era così. Cioè quando eravamo in mezzo al Golfo col la barchetta, il mare era deserto. Molte strade erano ancora sconnesse. Ma Piazza Dante pullulava già di bancarelle e di ambulanti che, da bravi napoletani, pubblicizzavano la loro merce cantando.

La vita in Istituto era monotona per tutta la settimana, ma la domenica, spesso, ci conducevano all'Istituto del Vomero, dove potevamo giocare a pallone in un largo spiazzale. era un bel posto con un grande giardino con alberi e molto verde. Da Piazza Dante al Vomero ci trasferivamo in "Funicolare" ed era meraviglioso e poetico muoversi sospeso nell'aria.

Intanto l'anno scolastico volgeva al termine, e noi ci preparavamo per gli esami, poichè allora in quinta ginnasiale bisognava sostenere gli esami per l'ammissione al liceo. Nell'ultimo periodo ci mettemmo a Studiare seriamente e intensamente, e riuscimmo a superare la prova con esito discreto. Eravamo nel 48 e, come ho già detto, Napoli stentava a riprendersi. All'Istituto il vitto non era tanto buono e anche la vita interna presentava poche distrazioni. Perciò io e Spezzaferri decidemmo di volerci trasferire all'Istituto Confiliachi di Padova, e presentammo istanza alle rispettive Amministrazioni Provinciali di Lecce e Brindisi per l'autorizzazione al trasferimento. Brindisi fu sollecita, e Spezzaferri potè cominciare l'anno scolastico 48-49 con regolarità. L'Amministrazione Provinciale di Lecce, invece, non si decise mai, nonostante innumerevoli sollecitazioni, ad autorizzare il mio trasferimento all'Istituto di Padova, e io perdetti l'anno scolastico.

Quasi certo di ottenere l'autorizzazione al trasferimento all'Istituto di Padova, me ne stavo tranquillo e non mi preoccupavo che potesse avvenire il contrario. Infatti quando mi convinsi che l'Amministrazione Provinciale era stata sorda ad ogni preghiera e protesta, ormai eravamo alla fine di dicembre e perciò non mi fu possibile escogitare altre vie per non perdere l'anno scolastico. E ora che fare? Mi dovetti rassegnare e non perdermi d'animo per questo altro intoppo al mio prosieguo scolastico.

Ma, come sempre, riuscivo a trovare dei diversivi: cominciai ad allargare la cerchia delle mie scorrazzate in bicicletta, sempre col mio fedele e affezionato Narduccio seduto avanti, tra i miei avambracci. Ormai la nostra intesa era perfetta, anche perché Narduccio era cresciuto ed era diventato più attento e più completo. Ormai andare a Lecce con la bicicletta, per noi era come andare a Maglie. A volte, durante il tragitto, venivamo superati da autocarri telonati che procedevano adagio, a circa trenta o massimo quaranta chilometri all'ora. Allora io, guidato dai "radar", i gomiti di Narduccio, mi lanciavo a forte velocità finchè con la mano sinistra non mi aggrappavo all'angolo destro della sponda posteriore; e così ci facevamo trainare per parecchi chilometri col vantaggio di essere più veloci e di stancarci di meno. Poi, arrivati alla lunga discesa di Galugnano, ci concedevamo l'altro riposo e, senza tanta stanchezza, si arrivava a Lecce, continuando per le vie cittadine la nostra passeggiata in bicicletta.

Allora i negozi più importanti non si trovavano nemmeno a Maglie che era già una cittadina. Bisognava spostarsi a Lecce, se si voleva acquistare prodotti di elettricità o altro affine. E' fu proprio questa una delle occasioni che ci fece prendere le prime conoscenze delle vie di Lecce.

A casa mia non avevamo ancora l'illuminazione elettrica. Ci servivamo dei lumi a petrolio o di candele. Ormai la Guerra era finita e il benessere cominciava a farsi sentire. Decidemmo di dotare la nostra abitazione dell'illuminazione elettrica. Così, fatto un semplice preventivo, mi recai a Lecce, sempre con Narduccio, per acquistare il materiale elettrico necessario per l'impianto: interruttori, isolanti, nastro isolante, filo, portalampade ed altro. Trovato il negozio in una viuzza nei pressi del Vescovado, ordinammo il tutto. Avuta la nota del prezzo, i Soldi non mi bastavano. Il mio preventivo non aveva previsto alcuni particolari che aumentarono il costo e, lì per lì rimasi frastornato. Dissi alla proprietaria che non mi bastavano i liquidi e che sarei tornato all'indomani per ritirare tutta la merce, ma quella signora fu tanto gentile che mi disse di non preoccuparmi e che il resto glielo potevo portare non domani, ma al mio prossimo viaggio a Lecce. Non ci aveva mai visti, e ciononostante, ci consegnò tutta la merce e tanta fiducia. Io cercai di oppormi dicendo che lei non ci conosceva, e lei con sicurezza aggiunse: "vai, giovanotto, le persone si conoscono in faccia". Io mi commossi per tanta fiducia nei miei riguardi, e all'indomani, puntuale, tornai a Lecce e le versai il rimanente. La signora mi ringraziò e mi disse che non c' era stato bisogno di tanta fretta, che potevo disporre del suo negozio a mio piacimento. La ringraziai da parte mia e le promisi che mi sarei rivolto sempre al suo negozio per acquisti di prodotti elettrici.

Intanto cominciavano a spuntare negozi vari anche a Maglie, e nelle nostre escursioni ci soffermavamo ad osservare e a sognare. Sulla via Roma era sorto un negozio di apparecchi radio, giradischi ed altro attinente. Le mie passeggiate in bicicletta ormai erano diventate passeggiate di gruppo. Avevo fatto parecchie amicizie con ragazzi e giovani, e si andava in giro tutti insieme. La comitiva più ristretta era formata da me, da mio cugino Narduccio, da Nino Zaminga detto "Mesciu Pascali", poi arruolato alla Polizia, da Cici Arcadi detto "Spinnulicchia", e poi altri occasionali.

Un giorno ci fermiamo davanti al negozio Radio Marelli per ascoltare Musica di dischi diffusa all'aperto. I miei amici mi dicono che tra gli apparecchi radio c'è anche una fisarmonica. Chiediamo al proprietario se la si può provare. Egli ci accoglie nel negozio e mette la fisarmonica a mia disposizione. Io, che già conoscevo le nozioni elementari sui bassi di tale strumento, mi comincio a cimentare con la mazurca di Migliavacca. Il proprietario era Agrosì, un maresciallo di Marina in pensione. Appena ascolta le prime battute, ordina al suo aiutante di mettere il microfono vicino e di diffondere la mia Musica fuori dal negozio, all'aperto. In pochi minuti tutta la strada si popola di gente, chiamata dal suono della fisarmonica. Si affollano all'ingresso del negozio; chiedono informazioni sulla mia persona; mi fanno richieste di brani. Io rimango sorpreso e nello stesso tempo confuso, ma anche contento di tanta popolarità. Continuo a suonare; ma il mio repertorio allora non era tanto ampio, e dopo alcuni brani che alla men peggio conoscevo, mi congedai, promettendo che sarei tornato.

Però la promessa non era fatta soltanto a quell'entusiasta e gentile pubblico, ma anche a me stesso. Quella fisarmonica mi aveva invaghito. Era una Elettra a centoventi bassi, con cinque registri al canto e due ai bassi. A casa non disponevo di nessuno strumento. Comprare un pianoforte allora con le mie condizioni economiche familiari non c'era nemmeno da sognarselo. Quella fisarmonica aveva svegliato in me il desiderio di possederla, ma il conflitto con la finanza familiare mi affliggeva. Tuttavia non trascurai il mio sogno. Tornai nuovamente dal maresciallo Agrosì e chiesi il prezzo dello strumento. Mi disse che costava 55.000 lire. Alla mia proposta di vendere a rate lo strumento, mi disse che mi avrebbe fatto delle condizioni particolari: mi avrebbe dato la fisarmonica in dodici rate da cinquemila lire ciascuna, con due sole rate di anticipo. Queste condizioni carezzarono e ravvivarono il mio desiderio. Pensai che il mio sogno di possedere uno strumento forse poteva tradursi in piacevole realtà.

Tornai a casa. Cominciai con molta delicatezza a parlare dell'argomento. Non sapevo come introdurre il discorso per esporre il mio disegno. Cominciai a dire timidamente che era un peccato non potere acquistare quella fisarmonica. Che sarebbe bellissimo potere Studiare la Musica anche stando nella propria casa. I miei ascoltavano compiaciuti le mie argomentazioni, ma non le prendevano per niente in considerazione per l'impossibilità di affrontare spese onerose. Allora fui preso dalla tristezza e dallo sconforto. Mia madre mi chiedeva che cosa avessi; perché ero così triste. Le dissi che quella fisarmonica mi piaceva moltissimo, e il non poterla possedere mi affliggeva. Cominciò a prendere in considerazione il mio caso; ne parlò a mio padre, ed egli, che in gioventù aveva posseduto "l'organetto a mantice" (le vecchie fisarmoniche cromatiche), non fu contrario ad affrontare il problema. Se ne parlò. Si trovarono le diecimila lire per l'anticipo. Andammo a Maglie io con Narduccio, mio cugino Narduccio, Nino Zaminga, futuro poliziotto, e Luigi Arcadi. Firmai le dieci cambiali e tornammo felici e pieni di gioia nella nostra casetta. Cominciai a suonare, e anche qui la casa si riempì subito di gente. Tutta la vicinanza e gente che si trovava a passare per caso si fermavano ad ascoltare e a chiedere dell'episodio. Altri, che da lontano vedevano assembramento di gente, si avvicinavano a chiedere se fosse successo qualcosa e, conosciuto l'evento, si soffermavano con curiosità e interesse a partecipare alla festa. Quando mi stancai chiusi lo strumento e mi alzai in piedi a ricevere gli auguri e i "bravo" che venivano da tutte le parti.


I capitoli tratti dall'autobiografia "Un Cieco Che Vede" del prof. Antonio Greco, vengono pubblicati con l'autorizzazione dell'autore. Per contattare il prof. Antonio Greco e per informazioni sull'opera completa si può Scrivere a griconio@gmail.com