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Ritardo nei bambini privi della vista durante i loro primi tre anni di vita

Aggiornato il 16/09/2020 08:00 
 

A bella posta, la volta scorsa, ho fatto precedere alcune riflessioni su M. B. Spencer, ricercatrice sperimentale attenta e scrupolosa, nonostante gli strumenti d'indagine a sua disposizione negli anni 1950/60.

Con il presente mio scritto intendo dimostrare, infatti, quanto lo sviluppo economico-Sociale, il processo di acculturazione alquanto generalizzato delle popolazioni e il ruolo determinante ricoperto dalle scienze umane, psicologia e pedagogia in primis, abbiano profondamente modificato e mutato il panorama riportato dalla Spencer riguardanti i ritardi registrati sui bambini privi della Vista durante i loro primi tre anni di vita.

Gli amici e le amiche che mi seguono ormai da tempo e che ringrazio cordialmente, conoscono bene il mio costante tentativo di scardinare le barriere che di fatto ostacolano ancora la piena affermazione della persona con disabilità. E non mi riferisco, ovviamente, soltanto agli ostacoli di Natura architettonica poiché essi non sono sempre rischiosi per l'incolumità della persona. Faccio riferimento, invece, in maniera più specifica, a quelle resistenze di Natura culturale e psicologica che si muovono silenziosamente e sottotraccia, essendo abilmente camuffate da erudite dissertazioni, da smaglianti e accattivanti sorrisi, da disinvolte ma fredde ed impassibili strette di mano.

Chi mi conosce, dicevo, sa bene che questi miei scritti – che metto gratuitamente a disposizione di tutti: dei genitori, dei docenti e di tutti coloro che hanno interesse ad approfondire le problematicità della minorazione visiva – sono espresse da una persona minorata della Vista che ha vissuto per tanti e tanti anni assieme a bambini e ragazzi privi della Vista; per non sottolineare l'immensa fortuna, quella di accompagnarmi anche a numerosissimi amici non vedenti, professionisti prestigiosi, sia per cultura che per qualità umane e sociali.

Nei miei scritti sono solito ripetere spesso che la minorazione visiva, a differenza dalle altre disabilità, non riesce ancora a superare quei tanti pregiudizi, prevenzioni, stereotipi e fobie che, se pur figli di una cultura ritenuta ormai alquanto obsoleta, producono ancora disattenzione, disinformazione e negligenza. È una situazione non più accettabile e ancor meno giustificabile, soprattutto se ciò si ripropone con estrema leggerezza proprio in quelle strutture che, per dettato istituzionale, dovrebbero promuovere una “seria e aggiornata cultura sulle disabilità”.

Comprenderete, quindi, la ragione che mi fanno fremere e inquietare quando tali negligenze divengono non più ricerca, ma autentica profanazione della verità e della cultura. Qua e là, infatti, si continua a rispolverare documentazioni e dati statistici sulla minorazione visiva, non avendo l'accortezza (o l'obbligo) di confrontarle sapientemente con altre ricerche più recenti.

Ho letto alcune asserzioni riguardanti i bambini privi della Vista durante i loro primi mesi di vita; le medesime riportate nella sperimentazione condotta in America dalla M. B. Spencer e citata in: “Bambini ciechi in famiglia e in comunità”.

Mi sembra doveroso far presente che i bambini esaminati dalla Spencer erano tutti privi della Vista sin dalla nascita, ma cresciuti presso famiglie ai margini dell'indigenza e dell'analfabetismo e in larga parte già istituzionalizzati.

Dall'indagine si deduce che gli atteggiamenti tipici di uno sviluppo carente sensoriale e Sociale, sono determinati prevalentemente dalla minorazione visiva.

Non oso assolutamente dubitare della serietà della ricerca condotta dalla Spencer con rigore, serietà e obiettività. Quel che desidero far rilevare, invece, è che essa risale agli anni 1950-60, periodo della “pedagogia emendativa” o della “pedagogia normalizzatrice” e condotta negli Stati Uniti d'America e non in Paesi Europei.

Riproporre oggi la ricerca in maniera asettica e sic et simpliciter, come se fosse un teorema di Matematica – che pure va doverosamente dimostrato – facendola passare come ancora attuale, lo considero anacronistico da un punto di Vista pedagogico, psicologico, sociologico e antropologico. Se la statistica vien proposta oggi come ancora credibile, si disconosce l'influenza dell'intervento dell'Ambiente, ora profondamente mutato sia per quanto concerne l'aspetto culturale, sia per l'evidente progresso socio-economico. Né si tiene conto dell'influenza dell'Ambiente familiare, nel quale il bimbo può ricevere attenzioni e premure affettive specifiche, rispetto alla vita fredda e spersonalizzante degli istituti.

Se si vuol rispolverare la prestigiosa indagine della Spencer – ed è opportuno e corretto riproporla – si faccia rilevare che i ritardi osservati nei bambini privi della Vista riguardante l'ipotonia muscolare, l'instabilità posturale, lo spostamento posticipato da una posizione all'altra, lo scarso utilizzo delle gambe e delle braccia per rotolarsi, per gattonare e per iniziare a camminare, non sono da attribuirsi assolutamente alla presenza della cecità in quanto tale, ma alle scarse sollecitazioni che quei “bambini ciechi” hanno ricevuto nel periodo post natale in quel particolare contesto.

Analogo ragionamento va ripetuto in merito alla povertà conoscitiva degli oggetti in quei piccoli. Non vi sembra, invece, più obbiettivo e doveroso domandarsi quanti oggetti sono stati proposti e posti tra le manine di quei bambini? E cosa dire di quelle “stereotipie” o “tic”, che qualcuno, con tanta leggerezza ha accostato ai “tratti di incipiente Autismo”?

Consiglio tutti coloro che vogliono conoscere le cause reali delle “stereotipie” manifestate dai bambini privi della Vista, di rileggersi alcuni miei articoli postati su Facebook o sulla mia Pagina “Minorazione Visiva” ove tratto in maniera specifica dei “ciechismi”o “blindismi” che, però, nulla hanno in comune con l'Autismo (articoli disponibili anche in DiGrande.it NDR).

Concludendo e confutando apertamente coloro che ancora asseriscono che nei privi della Vista vi siano specificatamente ritardi attribuibili alla cecità: lo psicoanalista viennese Renè Spitz condusse uno Studio sui bambini abbandonati in orfanotrofio, seguendo il Metodo scientifico sperimentale. Nello scritto: Hospitalism e nel filmato Grief a peril in infancy, il Ricercatore osservò 91 bambini abbandonati sin dalla nascita in orfanotrofio, nutriti regolarmente ma con scarsi contatti interpersonali. Le balie davano qualche carezza ai primi della grande camerata in cui vivevano i bambini, ma per gli ultimi il tempo era necessario solamente per il nutrimento e l'igiene.

Dopo 3 mesi di carenza di contatti, i bimbi svilupparono una grave apatia, immobilismo, inespressività del volto, ritardo motorio e deterioramento della coordinazione oculare. Entro la fine del secondo anno di vita, il 37% dei 91 bambini, pur essendo stati alimentati correttamente, morì. Chi riuscì a sopravvivere non fu in grado di parlare o di camminare, non erano in grado nemmeno di rimanere autonomamente seduti.