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Le Vacanze Natalizie - Da “Un Cieco che Vede” del prof. Antonio Greco

Aggiornato il 10/03/2021 08:00 
 

Passò anche quella domenica di dicembre e ci preparammo ad iniziare la nuova settimana che ci doveva condurre alle vacanze natalizie, appuntamento atteso da molti ragazzi, ma anche compianto da molti altri.

La popolazione dell'Istituto era geograficamente eterogenea: albergavano allievi della Calabria, della Basilicata e della lunga Puglia a cominciare da S. Severo a Santa Maria di Leuca. Molte famiglie di questi ragazzi non avevano le possibilità finanziarie di poter ritirare durante le vacanze nel proprio focolare domestico i loro figliuoli, per cui questi sfortunati ragazzi erano costretti a trascorrere le vacanze in Istituto. Non parliamo poi di quei soggetti la cui famiglia si era quasi disinteressata di loro; per fortuna erano molto pochi, e questi trascorrevano anche le vacanze estive in Istituto. Generalmente tornavano tra le mura domestiche i collegiali della provincia di Lecce, di Brindisi e qualcuno della provincia di Taranto. Non mancavano poi le eccezioni per le altre province.

Con indifferenza per gli sfortunati e con gioia ed entusiasmo per i fortunati ebbe inizio la nuova settimana. La sveglia, la messa, la colazione e la Scuola rappresentavano il repertorio giornaliero per tutto l'anno. In classe, anche quel giorno, esercitazioni, dettatini (ma non ancora per me), dialoghi interessarono le prime ore della giornata. Verso le 11,30 la maestra ci condusse in un grande salone attraverso una bella scalinata con intarsi e marmi, dove ci attendeva un'altra maestra: la signorina Domenica Napoli di Palermo, Insegnante di Musica e canto. Ci disponemmo intorno al pianoforte e la maestra diede il via per l'intonazione di canti che i miei compagni già conoscevano. Erano belle canzoni, alcune della circostanza, cioè natalizie, altre no. Una di queste canzoni recitava: "va' sull'onde, mia barchetta, va' sicura e non tremar..." Erano melodie semplici e io feci presto a fissare nella memoria melodia e parole. Poi si passò ad un balletto che avevano preparato in precedenza. Venni invitato a prendere parte anch'io, benchè digiuno di tale attività. In famiglia si era parlato di balletti contadini e folcloristici, ad esempio la "Pizzica", che ballavano gli adulti, ma io non mi ero mai cimentato. Mi fu assegnata la ballerina Maria Rizzi. Era una graziosa fanciulla, leggera, molto elegante nei suoi movimenti; godeva di un buon residuo visivo e mi guidava nei movimenti del balletto. Io mi sentivo impacciato e cercavo di stare molto attento ai comandi che la mia ballerina mi impartiva durante il balletto. Seppi poi che Maria aveva in Istituto anche un fratello, cieco assoluto, di nome Francesco. Quando uscimmo da Scuola, in refettorio chiesi a Carluccio (molti ci chiamavamo per cognome) se conosceva Francesco Rizzi. Mi disse che era suo compagno di classe. Quando tornammo nella sala di ricreazione me lo presentò e così mi feci un altro amico. Era un bravo ragazzo, di Gravina di Puglia, compaesano di Calculli, mio compagno di classe.

Generalmente molti ragazzi arrivavano in Istituto scolasticamente in età già avanzata. Erano pochissimi, o forse nessuno, quegli alunni che cominciavano la prima elementare a sei anni. Nella mia classe eravamo tutti dai nove agli undici anni e più. Io ero il più grande.

Intanto i giorni passavano, e finalmente giunse il tanto atteso venerdì 23 dicembre. Erano cominciate le vacanze. Ogni volta che veniva il portiere a chiamare: "Signorina,..." io dicevo: questo è mio padre! E invece mi sbagliavo. Ma finalmente: "Signorina, lu Grecu". La signorina Formica: - Digli di attendere. -

Mi condusse nel dormitorio per farmi indossare la divisa dell'Istituto: pantaloni lunghi, giacca chiusa da una fila di bottoni fino al collo, berretto caratteristico, simile a quello che indossavano i componenti delle bande musicali. Era un berretto con la scritta frontale "C I" e sormontato da un piano circolare più largo dello stesso cappello; le scarpe di cuoio, e non scarpette di gomma, Leggere, che avevo indossato al mio ingresso in Istituto. Così vestito, la signorina mi accompagnò da mio padre; ci fece gli auguri di "Buone Feste" che noi ricambiammo. Disse a mio padre che doveva riaccompagnarmi in Istituto il 5 gennaio. Ci congedò e ce ne andammo. Fuori ci aspettava la nostra bicicletta. Mio padre mi fece prendere posto sul portabagagli e ci avviammo per il ritorno alla nostra casetta e agli affetti familiari.

Fuori non faceva tanto freddo come sette giorni prima. Mio padre non era tanto acrobata con la bicicletta, perché aveva appreso a condurla già da adulto; perciò doveva trovare un marciapiede per montare in sella e poi avviarsi. Attraversammo quasi tutta la città e ci immettemmo sulla Lecce-Cavallino-Caprarica-Martano-Castrignano dei Greci.

A casa ci aspettavano e, come videro spuntare la bicicletta all'angolo del cortile, tutti ci vennero incontro; anche Narduccio, tutto felice: "Nnoni, Nnoni," mi chiamava e venne per essere preso in braccio. Io lo sollevai e me lo strinsi forte, forte. Mia madre mi abbracciò e mi baciò. Tutti vennero a stringermi la mano. Era una bella giornata di sole e di affetti. Però mancava Rocco, impegnato col Lavoro presso un contadino a giornata. Cominciai a cercare i miei giocattoli; nel cortile mi aspettavano amici e amichette tutti contenti di poter riprendere i nostri divertimenti e giochi.

Al tramonto venne Rocco e per la commozione non mi rivolse nemmeno parola. Mi abbracciò con le lacrime agli occhi: poi si riprese e mi chiese per quanto tempo sarei rimasto a casa. - Prima della Befana ritorno in Istituto - gli risposi e fu felice di potermi stare vicino per parecchi giorni. La sera, per riverenza, come se fossi diventato un'altra persona, per me comperarono il pane bianco. Io ringraziai e dissi che potevo mangiare anche quello nero di famiglia. - Tu - disse mio padre -dovrai diventare professore, chè me l'ha detto Don Beniamino Plenteda. Mi ha detto che a Castro c'è un grande professore di Musica che non vede. -

Io accettai il buon augurio, ma non proferii parola. Era ancora troppo presto; però la profezia di mio padre doveva poi avverarsi. Così si concluse quella bella giornata e ce ne andammo a letto preparati per il giorno dopo, la vigilia di Natale.

La mattina seguente mia madre si levò dal letto molto presto: doveva preparare le fritture e tutte le leccornie riservate per quei giorni. La tradizione diceva che la vigilia di Natale ogni famiglia doveva disporre di tredici pasti differenti; che poi anche frutta differente rappresentava pasti differenti, e quindi era facile arrivare al menu tredici. Aveva preparato l'impasto per le "pittule", per i "porceddhuzzi" e per altre golosità. Noi tutti ci svegliammo al Suono dell'Olio fritto e degli odorini che ti stimolavano l'appetito. La mamma ci disse di rimanere ancora a letto che era presto. Neve e Uccia si alzarono col pretesto di aiutare la mamma. Rocco e mio padre si prepararono per andare al Lavoro, e io mi alzai col pretesto di assaggiare qualche "pittula" che calde calde, sono una delizia. Intanto anche fuori, nel cortile, si sentivano voci e movimenti di gente che andava al Lavoro e dei figli più grandi che dovevano accudire ai più piccoli.

Allora tutte le famiglie erano povere di Soldi, ma ricche di figli. Era difficile trovare una famiglia con meno di quattro. I figli erano considerati una ricchezza in quanto, da grandi, potevano dare il loro contributo lavorativo. Una famiglia con molti maschi poteva coltivare più terre di un'altra. E la terra per i poveri era la Santa Madre Chiesa. Molte abitazioni, appena spuntato il giorno, aprivano l'uscio di casa per farvi entrare la luce, chè non si disponeva di finestre o di infissi con vetri. Anche noi aprimmo la porta e i primi raggi del sole penetrarono all'interno come per associarsi alla nostra gioia familiare. Mio padre la sera precedente mi aveva comprato un piccolo organetto a Bocca e io ora mi sforzavo e mi cimentavo di tirar fuori una melodia che avevo imparato in Istituto: "Cantate, angeli belli! è nato il Redentore, che porta ai poverelli fede, speranza, amor." Mi divertivo a ricavare le note della melodia che erano molto semplici e in parte, dopo vari tentativi, ci riuscii.

La Musica in quei tempi era un lusso, ma di quelli grandi, e per i miei compagni di gioco sembrò una novità molto piacevole. Volevano anch'essi provare a suonare la mia armonica a Bocca, e io fui costretto a farla provare a qualcuno. Rocco Stomeo, che era di un anno più piccolo di me, abitava accanto alla mia casa; corse da sua madre per farsi comprare un'armonica tutta sua. Dopo sentii che gridava piangendo, perché la voleva ad ogni costo. Sua madre inutilmente si sforzava di convincerlo che per il momento non era possibile, perché in paese non le vendeva nessuno, e che poi gliel'avrebbe acquistata. Lo calmai io, facendogli suonare ancora la mia armonica.

Allora non si andava tanto per le sottili tra i poveri in quanto a norme igieniche. Era una grave offesa se non permettevi al malcapitato di bere nello stesso tuo bicchiere. Ti sentivi rimproverare: "Che porto io la rogna? Forse ti infetto la peste?" E a volte ti levavano per un po' di tempo la parola per la brutta offesa ricevuta. Perciò io mi guardai bene dal rifiutare la richiesta di voler provare a suonare. Così la provò anche Immacolata Mascello "Burlinchena", sua sorella Teresina, Nicola Patisso e suo fratello Narduccio "Piccione" ed altri.

Per fortuna mia e loro, nessuna malattia si manifestò, nè subito, nè poi. Stancatomi di suonare, cercai altri diversivi. Presi la bicicletta, che quel giorno era a casa, e mi incamminai per le stradette vicine. Tutti mi chiedevano, o chiedevano a mia madre, come facessi, senza vedere a camminare con tanta precisione sulla bicicletta, senza mai finire contro un muro, o senza mai sbagliare una svolta. E^ vero! Allora io non mi rendevo conto, ma ora, da adulto, confortato dalla mia Cultura (laurea in filosofia, Storia, pedagogia e psicologia) capisco che cosa avveniva: il lieve fruscìo delle ruote della bicicletta, o il tic tac della ruota libera, quando i pedali sono fermi, fungevano da radar e, mediante l'Udito, riuscivo a localizzare quasi con massima precisione le distanze degli ostacoli dalla mia posizione. A volte qualcuno, non credendo alla mia cecità, si metteva davanti per verificare se riuscivo a percepire la sua presenza. Quando intorno era silenzio, quasi sempre evitavo l'ostacolo con grande meraviglia dell'incredulo. Si cominciava già a parlare di miracolo della Natura che ti priva di un senso e ti compensa con i rimanenti, per il popolino, superiori rispetto a quelli degli altri. Io oggi sostengo che questa affermazione non è vera; è vero, invece, che, chi manca di un senso, è costretto a sviluppare i rimanenti per cercare di riequilibrare l'armonia della percezione e della vita.

Intanto arrivò il pomeriggio e tutti tornarono più presto dal Lavoro, data la grande ricorrenza: la vigilia di Natale. Si organizzarono giochi di piccoli e grandi. Gli adulti giocavano a Soldi spiccioli; noi con i pinoli, sul tavolo o a terra giocavamo a "votamano". Il gioco consisteva nel mettere sul tavolo quattro o cinque pinoli a testa. Il sorteggiato li prendeva tutti sul palmo della mano; li lanciava quindici, venti centimetri in alto e, girando rapidamente la mano, dovevano cadergli sul dorso della stessa. Quelli che, invece, finivano sul tavolo rappresentavano il secondo momento del gioco. Il concorrente doveva condurre tra un pinolo e l'altro, a sua scelta, il mignolo, senza toccarli, perché se sfiorava l'uno o l'altro, interrompeva il gioco, che passava al più vicino avversario. Si giocava anche a "Campana". Questo era un gioco di movimento, che serviva anche a fugare il freddo. Si sceglievano dieci "chianche" disposte in due file parallele di cinque ciascuna. Si prendeva la "stacchia", un coccio di creta rotondeggiante (allora non mancavano) e si gettava sulla prima "chianca"; poi, se il lancio era preciso, con un piede e l'altro sollevato, si accedeva sulla chianca e, dando un calcetto, si mandava la "stacchia" fuori dal rettangolo. Dalla prima si passava alla seconda chianca e così via, fino alla decima, se non si sbagliava. Ma era difficile non sbagliare, perché non sempre si riusciva a stare su un solo piede e dare piccoli calcetti alla stacchia per farle seguire tutto il tragitto dalla decima alla prima chianca, a ritroso, senza sbagliare. Naturalmente il gioco interrotto passava all'avversario che riprendeva dal punto in cui aveva sbagliato precedentemente. Vinceva chi riusciva, a più riprese, a condurre a termine il gioco. Era divertente e durava un bel po' di tempo. Il premio del vincitore consisteva nel farsi trasportare a cavalcioni sul vinto, per cinque o dieci volte, secondo gli accordi precedenti, da un punto all'altro del cortile o, se pioveva, della stessa abitazione.

La cena era quasi pronta e interrompemmo i giochi per prepararci a gustare i tredici pasti. Con noi venne a trascorrere il Natale anche la "mamma Fina" (Serafina Manfredi): così venivano chiamate le nonne. Era la nonna materna, una vecchietta di 74 anni, tenuti bene; era arzilla e nello stesso tempo di aspetto severo; però mi voleva bene. Ci fece il regalo di Natale, e rimase con noi anche il giorno dopo, per onorarci con la sua presenza in uno dei giorni più belli dell'anno.

Dopo la cena, giocammo ancora, e poi si andò a letto. Allora la messa di mezzanotte si celebrava alle cinque del mattino seguente, cioè la mattina del giorno di Natale. Perciò andammo a dormire per alzarci presto e assistere alla Santa Messa in cui, al momento della Nascita di Gesù, si faceva gran baccano e festa. La messa era allietata dal Suono di uno degli organi a canne più grandi e belli della provincia. Si diceva allora che solo a Pompei vi era un altro simile. L'organo si trova all'ingresso della chiesa sostenuto da due grandi colonne, e vi si accede mediante una scala metallica a chiocciola. Nessuno voleva perdere quella cerimonia così significativa e suggestiva; anche noi fummo tutti presenti. Era parroco allora Don Giuseppe Stanca di Soleto, persona molto preparata, risoluto e sbrigativo. In chiesa ci incontrammo con tanti amici, con altri parenti e con tanta gente, tutti con aria di festa.

Finita la Santa Messa, tornammo nelle nostre case a goderci tutta per noi la festività. Era una bella giornata. Il sole timidamente si affacciava all'orizzonte. Gli uccelli avevano già intonato l'inno di ringraziamento per il nuovo giorno di vita. La piccola Piazza Sant'Antonio si era già popolata di gente che si scambiava gli auguri e tutti parlavano delle loro semine, delle potature, dell'annata dell'Olio e di altro. Allora tutti gli esercizi pubblici erano aperti anche di domenica e in tutti i giorni festivi. Le bettole erano le più frequentate. Era in voga il complimentarsi con mezzi quinti, con quarti di litro di vino per alcuni già dal mattino, e la sera erano ormai ubriachi fradici. Quella era l'unica evasione per chi lavorava dodici ore al giorno e più per tutto l'anno.

Tornato a casa, ripresi la solita routine: trottola, cerchi, bicicletta e giochi di movimento. Eravamo tutti vestiti a festa e non potevamo permetterci il lusso di attuare giochi per terra, come facevamo in altri giorni non festivi. Se ci sporcavamo, erano guai e dolori. Allora i vestiti erano razionati, e se si strappavano venivano rattoppati fino all'inverosimile. Perciò dovevamo stare attenti nel giocare a non combinare pasticci.

Passarono presto i sette giorni che ci separavano da Capodanno. Anche quella vigilia ci divertimmo molto con i nostri giochi tradizionali e anche con soldini, frutto dei "Panairi" (regalucci di genitori e parenti). Giocavamo al "Tuzza". Il gioco consisteva nel lanciare contro il muro una monetina che, rimbalzando, doveva cadere a meno di un palmo dalla monetina precedente scagliata dall'avversario. Se la distanza non superava il "palmo" si vinceva, altrimenti il gioco passava all'avversario e continuava fino al vincitore finale. Vinceva più facilmente chi disponeva di una mano ampia che gli permetteva una lunghezza di palmo superiore.

Anche il giorno di Capodanno 1939 era una bella giornata di sole con una dolce temperatura. Il pranzo era particolarmente ricco: pastasciutta, carne di maiale al sugo, formaggio, ricotta, miele, "pittule", "carteddhate", frutta di molte qualità ed altro. Per quel giorno si faceva ogni sforzo per arricchire la tavola, poichè era credenza e tradizione che, "se si mangiava bene a Capodanno, si mangiava bene tutto l'anno". La superstizione era la migliore compagna di ogni saggia persona.

Intanto il mio umore si offuscava ogni giorno che passava. Si avvicinava il giorno 5, termine delle mie vacanze e del ritorno in Istituto. Non capisco perché mi fecero rientrare il 5 e non l'8, ultimo giorno delle vacanze. Tuttavia arrivò giovedì e mio padre mi riaccompagnò in Istituto. Nonostante dentro di me soffrissi molto il distacco, mi feci forte e non piansi, come invece facevano altri miei compagni quando si licenziavano dai familiari. Però fui presto distratto dall'incontro coi miei compagni che non avevano goduto del calore familiare. Mi salutarono con tanta gioia, e anch'io fui contento di poterli riabbracciare. Avevo con me, in quella cassetta che mio padre aveva portato dall'Africa, delle mie cosette. Volli offrirne una parte ai più intimi, poichè non avevo per tutti, e molti ancora non li conoscevo.

Il giorno dopo si festeggiava la Befana, e tutti aspettavano con ansia i suoi doni. Io non sapevo le abitudini della "Comunità", perciò facevo da spettatore. Carluccio mi disse che durante la notte la Befana ci avrebbe portato i doni. Tutti andammo a letto con l'impegno di non addormentarci per sentire la Befana al suo arrivo. Dopo circa una mezza ora cominciai a sentire movimenti di carta, spostamenti di pacchettini, almeno così credevo, e sussurrii leggeri leggeri. Riuscii ad individuare la Voce della mia assistente, signorina Formica, che parlava silenziosamente con un'altra persona che chiamava Carmela. Il giorno dopo seppi che era l'altra assistente: Carmela Faggiano.

Passi furtivi si muovevano nella camerata, ora presso questo, ora quel letto. Qualcuno, come me, stava ancora sveglio, ma non si permetteva di farsi notare. Anch'io fingevo di dormire quando la "nonnina" venne presso il mio capezzale e depose un pacchettino. Per la curiosità volevo aprirlo, ma temevo di far rumore e lasciai perdere. Qualche piccolo movimento si udiva anche in altri letti, ma nessuno si azzardò a rischiare più di tanto. Così ci addormentammo. Io sognai che nel mio pacchetto c'era un trenino che, poi, era diventato trottola, e giocavo con i compagni, anch'essi con trenini, pistole, macchinine ed altri giocattoli.

La mattina, al Suono della sveglia, tutti si affaccendavano per Aprire il pacchettino, e ognuno esclamava il nome del dono che vi trovava. Io aprii il mio e rimasi ammutolito, sorpreso e dispiaciuto. Pensavo di trovare chi sa che cosa e, invece.... un paio di bretelle. Fui triste e forse anche un po' invidioso verso i miei compagni che avevano avuto in dono tanti svariati giocattoli. Per fortuna erano bravi i miei amici e mi partecipavano i loro giocattoli per farmi divertire. Anche per loro la Befana con me aveva sbagliato. Ma queste sono le vicende della vita. Ci divertimmo per tutti quei tre giorni di vacanza che ancora ci rimanevano, poichè il prossimo lunedì si riprendeva la vita scolastica.


I capitoli tratti dall'autobiografia "Un Cieco Che Vede" del prof. Antonio Greco, vengono pubblicati con l'autorizzazione dell'autore. Per contattare il prof. Antonio Greco e per informazioni sull'opera completa si può Scrivere a griconio@gmail.com