La Prima Automobile - Da “Un Cieco che Vede” del prof. Antonio Greco
Antonio Greco Aggiornato il 18/08/2021 08:00Correva l'anno della scuola 1969-1970. Tutto procedeva normalmente e anzi, direi, bene. Era il sesto anno scolastico di mia permanenza all'Istituto Magistrale di Maglie.
In quel periodo viaggiavo in compagnia di un collega bravo, disponibile e molto comprensivo; ma non dirò nè chi era, nè di dov'era, nè che cosa insegnava.
Come sempre, anche quell'anno insegnavo in tre classi: seconda, terza e quarta.
Caso volle che in una di queste classi ci fosse un'alunna la cui famiglia era molto vicina a quella del mio collega. La ragazza rendeva nelle mie discipline poco, per non dire pochissimo. I familiari misero in croce il collega, perché la aiutasse, poichè scarseggiava anche in altre materie. Quindi correva il rischio di essere respinta. L'amico con massimo rincrescimento, mi chiese di aiutare la sua protetta con la sufficienza nelle mie discipline, in modo da poterla solamente rimandare a settembre. Io gli feci rilevare che nelle mie materie non era da mediocre, ma da scarso.
Dopo giorni il martire tornò sull'argomento, aggiungendo che la situazione della famiglia della ragazza in questione era critica, che non lo lasciavano in pace, che gli imponevano ad ogni costo di cercare di salvare l'alunna dalla bocciatura. Io gli dissi che si preparasse sufficientemente la ragazza per una successiva interrogazione, in modo da offrirle la possibilità di meritarsi almeno la quasi sufficienza. Accettò il suggerimento e pensavamo di aver risolto il problema. Invece nemmeno alla salvanda interrogazione seppe esporre con quella quasi sufficienza tanto agognata.
Eravamo alla fine dell'anno scolastico, e una decisione dovevo pur prenderla. Era difficile la scelta: giudico l'alunna come tutte le altre e perdo l'amico, e quindi la possibilità di farmi accompagnare a scuola, o ingoio il rospo e compio un'ingiustizia sia verso la mia coscienza che nei confronti di altre alunne che avevano reso più della mela della discordia e che ero intenzionato di rimandare a settembre?
Il conflitto mi travagliò per parecchi giorni, finchè non giungemmo agli scrutini.
A malincuore dovetti optare per il secondo calice.
Giudicai con la sufficienza la raccomandata; ma nella stessa classe non me la sentii di rinviare a settembre nessun'altra studentessa.
Apparentemente chiudemmo la questione; il collega mi rimase amico e fedele; ma io non riuscivo a mandar giù quel grosso rospo e cercavo un'alternativa al problema di sempre: il viaggiare.
Trovai la via d'uscita: la patente automobilistica per mia moglie e l'acquisto immediato di una qualsiasi utilitaria. Feci iscrivere Teresa alla scuola - guida di Martano, e nel mese di ottobre di quello stesso anno era già in possesso della patente automobilistica. Ora bisognava acquistare l'auto. Ci orientammo verso la N S U, la famosa PRINZ 600. Il 21 novembre successivo eravamo già in possesso anche della macchina.
Mi sentii liberato dai lacci del condizionamento. Mi sentii più padrone di me, e quindi più forte e sicuro nell'applicare, sopratutto nella scuola, la correttezza, la moralità e la giustizia.
Una parola per il collega: ripeto, è una bravissima persona; ma l'ambiente lo aveva reso succube e martire. Gli volli lo stesso bene e, nonostante avessi macchina ed autista, continuammo a viaggiare insieme per parecchi anni ancora. Anch'egli aveva preso insegnamenti dalla circostanza, e non si fece mai più coinvolgere da situazioni analoghe.
Il Vizio del Fumo
Mi ero liberato da certi fastidi, ma altri mi minacciavano: fastidi della salute.
Da un po' di tempo non mi sentivo bene. Accusavo fastidi di circolazione, giramenti di testa, mal di stomaco e stanchezza. Il medico di famiglia diceva che si trattava di qualche morbo e mi appioppava medicinali. Mi sottoposi a radiografie dell'apparato digerente, e il radiologo trovava tutto alla perfezione. Tornava a riguardare le lastre, ma non riusciva a intravedere segni di anomalie funzionali. Mi chiese se fumavo e io gli dissi di sì.
- Allora - disse - sarà il fumo che ti provoca tutti questi disturbi. -
Io non detti peso e continuai a fumare. I disturbi continuavano, tanto che addirittura mi sottoposi ad un elettroencefalogramma, ma non trasparì nessuna patologia.
Pensando che fosse anche lo stress, nell'estate del 1973 decidemmo di trascorrere una breve vacanza a Padova dalla sorella di mia moglie che si era sposata in quella città.
Le distrazioni non mancarono, ma accompagnate sempre da quel certo malessere.
Approfittammo della circostanza per visitare con la famigliola la Basilica di Padova, altri luoghi di villeggiatura; non poteva mancare Venezia, Murano, Burano e la Basilica di San Marco.
Tornati in paese, si andò avanti nel migliore dei modi, finchè il 10 novembre di quell'anno, non lo dimentico mai, ascoltai alla televisione che studiosi americani avevano scoperto che il fumo di una sola sigaretta poteva causare trombosi cerebrali, infarti ed altri grossi malanni. Avevo sentito parlare male del fumo, ma non in quei termini categorici.
Cominciai a riflettere: la mia salute allora era ancora indispensabile; era necessario che io stessi bene. Dalla mia salute dipendeva il futuro della moglie e dei miei due figli: Paolo di nove anni e Clelia di cinque. Teresa era casalinga e non godeva di nessuna fonte di reddito; quindi una mia eventuale disgrazia significava la rovina della famiglia.
Decisione presa: NON SI FUMA PIU'.
Comunicata la mia scelta a Teresa, questa mi prendeva in giro, perché in passato avevo fatto altri tentativi di abbandono del fumo senza mai riuscirci. Per non fumare, andavo a scuola senza accendino, ma non riuscivo a resistere e dicevo ai colleghi che lo avevo dimenticato nell'altra giacca e che, perciò, mi facessero accendere la sigaretta. E ancora, lasciavo le sigarette a casa, ma ricorrevo ai colleghi, dicendo che non avevo fatto in tempo a comprarle. E quindi continuavo beatamente a fumare più di un pacchetto al giorno, e a volte anche due.
Visti i trascorsi, Teresa mi prendeva in giro, dicendomi che anche questa volta sarebbe stato fuoco di paglia. Io ribattevo che questa volta la cosa era diversa, e diversa fu.
Son passati quasi ventuno anni e io non ho più fumato, ed è chiaro, non intendo fumare.
Ora considero la stupidità del vizio, l'insignificante attaccamento privo di qualsiasi piacere dei sensi, la nocività alla salute e secondariamente alla tasca.
Da quando lasciai il vizio, sono scomparsi tutti i fastidi, tutti i disturbi; è migliorato il mio stato di benessere. Ho ripreso vigore, forza fisica, normale funzionalità degli apparati. Insomma, in poche parole, sto meglio adesso, mentre scrivo, che ventuno anni fa.
A tutti coloro che dicono di non sapere come fare per staccarsi dal vizio, io faccio loro lo stesso discorso che feci alla mia coscienza.
Non esiste nessun additivo nè chimico, nè diversivo che possa aver ragione del vizio del fumo. L'unica alternativa è di carattere psicologico. Bisogna convincersi che il fumo è il più acerrimo nemico della nostra salute, e che, se il futuro dei nostri figli, di persone a noi care, dipende dalla nostra salute, il fumo è la rovina di noi e degli altri da noi dipendenti. Quindi un consiglio ai fumatori:
- Se volete bene prima che a voi, ai vostri cari legati a voi, LASCIATE IL VIZIO DEL FUMO e sarete salvi voi e i vostri cari. Si tratta di volontà e di convinzione: il fumo deve essere considerato non un sollievo dei sensi o della psiche, ma il peggiore nemico, silenzioso, che trama sulla nostra salute e sulla sorte delle persone da noi dipendenti. -
E davvero si può parlare di una parentesi di malattia. Infatti dopo aver lasciato il vizio del fumo e dopo aver superato il periodo di malattia che sto per raccontare, fino ad oggi, mentre scrivo, non ho mai sofferto di nulla, tranne qualche raffreddore.
Siamo nell'estate del 1974. Io sono nominato commissario interno nella commissione degli esami di stato per il mio Istituto. Superiamo le prove scritte e si dà inizio agli esami orali. Si comincia discretamente; ma il secondo giorno delle prove orali la commissaria di Italiano e Storia deve interrompere il suo servizio per disgrazie familiari. Viene nominata una commissaria supplente, e si ricomincia. All'indomani il primo incidente di percorso: un'alunna sostiene gli esami di Storia. Le viene chiesto il Congresso di Vienna, e lei giustamente dice che ebbe inizio nel 1814. La professoressa la interrompe, correggendo che era il 1815. L'alunna cerca di difendersi, ma, come sempre, vince il più forte, e la candidata dovette ingoiare, non solo lei, ma anche io, il rospo.
Finita l'interrogazione, chiamo in disparte la commissaria e le faccio rilevare che l'alunna aveva ragione. Lei in un primo momento cerca di resistere, ma poi ripiega, affermando che si sarebbe documentata.
All'indomani onestamente mi disse che avevo ragione, e il caso fu chiuso.
Ma il fatto più grave fu un altro: faceva parte della commissione anche un commissario che da tempo era trasmigrato al Nord. Durante le prove orali faceva di tutto per confondere le candidate con domande fuori luogo o incompetenti, perché, poi seppi, che voleva si raccomandassero a lui per essere aiutate allo scrutinio finale.
Sopportai un giorno, due, tre e quattro; ma non ne potetti più. Fermai le operazioni di esami. Dissi che se non si cambiava registro avrei chiesto un ispettore al sig. Provveditore. Mi fu promessa tranquillità e si procedette. Ma velatamente, di tanto in tanto, qualche zampino disturbatore si affacciava durante questa o quella prova.
Io tornavo a casa risentito, offeso e agitato, perché con quell'andazzo si prevedeva un nutrito numero di respinte.
Infatti non mi ero sbagliato. Arrivati allo scrutinio, ben dodici ragazze non avevano raggiunto i requisiti per la promozione. Ricominciai la mia arringa di difesa e, tira e stira, riuscii a salvarne dieci. Per due non ci fu nulla da salvare, perché in realtà il curriculum e le prove d'esame erano state negative.
Concludemmo le operazioni e ci salutammo con tutti i membri della commissione, con le solite promesse di poterci rivedere e tornammo a casa.
Ma per me la casa durò poco, poichè durante quei brutti giorni di angherie, tornavo a casa e per il caldo, che soffro particolarmente, spesso, non mangiavo. Era il mese di luglio. Per vincere la calura spesso mi sdraiavo su una coperta stesa sul pavimento.
Un pomeriggio, mentre ero così sistemato, mi addormentai, ma improvvisamente mi svegliai con un gran freddo da farmi tremare come una canna. Non detti eccessiva importanza. Ma nei giorni successivi mi sentivo male ed avevo decimi di febbre. Non volevo ritirarmi dal compito che la scuola mi aveva affidato e, tra mille stenti, giunsi alla fine delle operazioni. Era l'1 agosto.
Tornato a casa cominciai ad avvertire dolori forti più del solito al torace, tanto che ricorremmo al medico di famiglia. Dopo avermi visitato, ci sollecitò il ricovero in ospedale.
Io, per la rabbia, la commozione, il dispiacere di lasciare la famiglia dopo che avevo promesso ai bambini belle vacanze, fui vinto da un pianto silenzioso, ma bevvi anche quel calice.
Fui ricoverato al Vito Fazzi di Lecce con diagnosi pleurite.
Io soffrivo in ospedale e Teresa faceva la martire avanti e indietro per assistermi e confortarmi. I bambini furono affidati a mia cognata Stella; ma di tanto in tanto venivano a farmi visita. A Paolo piaceva salire e scendere con l'ascensore. Aveva appena dieci anni e Clelia sei. Ero preoccupato per la mia salute, ma soprattutto per la ripercussione che avrebbe avuto sul loro futuro in caso mi fosse andata male. Il bravo prof. Filippo Muratore mi prometteva che sarei guarito; ma quando le mie condizioni migliorarono, non mi davo pace. Era arrivata la fine di agosto, e chiedevo al mio salvatore se potevo guarire in tempo per partecipare agli esami di riparazione di settembre. Mi disse testualmente:
- Sto facendo tanto per tirarti fuori dal pericolo, e tu vuoi rovinare tutto? -
Solo allora capii il rischio che avevo corso e mi rimisi alla sua volontà che mi dimise dall'ospedale il 17 settembre ad esami autunnali terminati. Ma fui contento di poter riprendere sano e forte il nuovo anno scolastico 1974 - 75.
Avevo badato tanto alla mia salute lasciando con sacrificio, ma con coraggio il vizio del fumo, ed ora la scuola mi aveva causato un danno quasi irreparabile. Da allora, come ho detto all'inizio, non ho mai sofferto di nulla. Faccio le mie stagioni balneari con lunghi bagni nel mare, come se nulla fosse successo.
Da queste righe sento davvero il bisogno di esprimere gratitudine e stima al prof. Muratore che con competenza, gentilezza, tatto, comprensione e tanta umanità, si prese cura della mia salute. Un grazie di cuore e lunga vita anche a Lui.
I capitoli tratti dall'autobiografia "Un Cieco Che Vede" del prof. Antonio Greco, vengono pubblicati con l'autorizzazione dell'autore. Per contattare il prof. Antonio Greco e per informazioni sull'opera completa si può Scrivere a griconio@gmail.com