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L'Avvento dell'Acquedotto Pugliese - Da “Un Cieco che Vede” del prof. Antonio Greco

Aggiornato il 21/04/2021 08:00 
 

Era la primavera dell'anno 1937. Una domenica di pomeriggio si cominciò a notare un viavai insolito. Cioè, mentre nelle altre domeniche i capannelli di persone, in gran parte adulti, si formavano nella piazza dell'orologio, in questa domenica c'era un movimento di persone di qualsiasi età e Sesso. Tutti si dirigevano sul largo Farì, piazza a me nota, perché mio padre e suo fratello, mio zio Salvatore, avevano scavato nell'abitazione di Antonio Salvatore detto Caronzo da "Carons" e della moglie Celestina comunemente Celestrina, una cisterna per la raccolta delle acque piovane. Questo Lavoro era stato fatto forse tre o quattro anni prima. Ricordo che la roccia era molto dura e diceva mio padre che con quel Lavoro non si guadagnava quasi niente, perché la roccia era durissima. Infatti il proprietario, per niente "Carons", ricompensò mio padre e mio zio con più di quanto avevano pattuito.

Io ero bambino e andavo a seguire come si scavava la roccia e, quando non c'era il mulo, mi piaceva entrare nella stalla che si trovava subito a sinistra appena entrati nel portone, per osservare finimenti ed altro che aveva a che fare con l'Animale. Sono stato sempre attratto dagli animali domestici e non avevo paura.

Ma ora torniamo all'argomento principale: l'avvento delle fontane. Io avevo quasi dieci anni, e notai nelle persone un'atmosfera di giorno di festa. Andai all'angolo del cortile e chiesi alla Rosina Pensa, sposata a Luigi Stanca di Galatina che abitava all'angolo di fronte a quello del cortile, il perché di quella festa insolita. Mi disse che dovevano inaugurare e collaudare le fontane. Erano tre le fontane: una a S. Leonardo, una a " Don Antoni" (il commerciante Antonio Greco), perché era vicino al suo negozio, e una al Largo Farì, dove poi doveva avvenire la cerimonia. Mi avviai pure io, giacché allora mi spostavo benissimo da solo, non essendoci veicoli in movimento. Incontrai persone che conoscevo. Mi dissero che erano presenti il Prefetto, alte personalità della gerarchia fascista, il Podestà e quasi tutta la cittadinanza. Ci furono i soliti discorsi di rito; il collaudo della fontana che lanciò lo spruzzo inaugurale molti metri in alto e cadendo benedisse parecchie persone. Era arrivata la manna dal cielo. Tutti erano contenti. Finalmente poteva ridursi il disagio del bisogno di acqua. Finalmente l'acqua poteva essere più a portata di recipiente. Erano tre fontane in tre angoli differenti del paese e la gente scelse la fontana più vicina alla propria abitazione per attingervi il prezioso liquido.

Prima dell'avvento della fontana tutta la popolazione si riversava al Largo Pozzelle, "Puzzule", dove potevano attingere acqua da quasi un centinaio di pozzi, alcuni di acqua sorgiva, altri di acqua piovana. Si diceva che in origine i pozzi erano 500 e che poi alcuni si erano interrati per mancanza di manutenzione. Il terreno sul quale erano questi pozzi era un prato adibito anche a pascolo. Qui venivano condotti i cavalli, i muli, gli asini, per essere abbeverati, e spesso qualche Cavallo riusciva a liberarsi dalla custodia del proprietario e seminava lo scompiglio, a volte anche nelle strade comunali. Tutta la gente scappava e cercava di trovare un rifugio per non essere investita dall'Animale imbizzarrito. La calma tornava quando l'Animale veniva catturato e riportato all'ordine.

Da una parte ricordo che era un piacere vedere processioni di Donne, ragazze, bambini e bambine che, prima del tramonto del sole, si recavano presso i pozzi, chi con secchi, chi con piccoli barattoli di salsa vuoti, legati ad un filo di spago per poterli calare nel pozzo. Questi erano soprattutto i bambini che si divertivano ad attingere acqua con quei piccoli recipienti. Altri erano intenti a riprendere il secchio che, spezzatasi la fune, quasi sempre fatta di paglia, era rimasto in fondo al pozzo. E si divertivano con i "crocci" (un'asta di metallo a cui erano appesi quattro ganci con tre uncini ciascuno, a qualcuno dei quali doveva agganciarsi la maniglia del secchio. Spesso la partita finiva presto con la vittoria del manovratore, ma qualche volta passavano pure giorni senza che il secchio venisse agganciato. Lo stesso problema si verificava anche nelle cisterne domestiche, ma lì non c'era la preoccupazione che il secchio potesse essere rubato da altra persona, che alla rinuncia del proprietario, senza essere Vista, tentava la sua avventura dell'agganciare il secchio ed impossessarsene. Ma non tutte le famiglie che avevano la cisterna erano dotate di "crocci", e perciò spesso si cercavano in prestito alle famiglie che li possedevano per poi restituirli non appena tirato il secchio dal fondo della cisterna.

Ora con l'avvento delle fontane il problema si era ristretto, ma era ancora molto sensibile.

Non bisogna trascurare la funzione socializzante che avevano avuto i pozzi prima e le fontane poi: infatti in occasione di quelli e di queste, si incontravano ragazze e ragazzi, bambini e bambine, adulti di ceti differenti, di età diverse che coglievano la gradita occasione per potersi meglio conoscere, con lo scopo primario di servirsene al momento opportuno, cioè nel caso di bisogno. Non dimentichiamo che le condizioni economiche dell'80% delle famiglie erano disagiate o in certi casi disastrose, per cui in particolari circostanze l'aiuto reciproco poteva essere salutare. La gente viveva alla giornata: non disponeva di nessuna risorsa. Reciprocamente tra famiglie si cercava in prestito, ora l'una, ora l'altra, un cucchiaio di sale o un bicchierino di Olio, in attesa di potere restituire appena possibile. Si viveva di miseria. A volte bisognava attendere fino alle 2 o oltre del pomeriggio per assaggiare un po' di pane, al ritorno cioè del genitore dal Lavoro. A volte addirittura fino alla sera, sfamandosi con qualche fico secco durante il giorno. Era una brutta vita; però, tutto sommato, forse rappresentava la migliore lezione di Educazione della vita.

A me sembra che allora si era più spensierati, meno viziati, meno esigenti, più disponibili, più altruisti, con meno pretese. Si aveva più voglia di lavorare, di apprendere; si era fieri e orgogliosi dell'Educazione ricevuta in famiglia, sopratutto nel rispetto dei valori morali. Meraviglioso era il senso di ospitalità, in particolare nelle famiglie contadine: bisogna però rilevare anche un altro aspetto: l'orgoglio, quasi superbia, dei lavoratori che non erano contadini; volevano essere denominati "artieri", cioè maestri d'arte. Questa classe Sociale era più restia a socializzare con quella dei contadini e dei braccianti. Si riteneva, anche se economicamente non era così, una classe intermedia tra la categoria dei ricchi e quella dei poveri. Ma questo senso di superiorità non era nei bambini o ragazzi. Questi giocavano con chicchessia e, in verità, i genitori non intervenivano per richiamarli o rimproverarli. La vita scorreva così.

LA PRIMA COMUNIONE

I giorni scorrevano senza particolari emozioni, tra giochi, giri in bicicletta, passeggiate in campagna e qualche baruffa tra compagni, vicini di casa. Spesso mi recavo in casa di zia Nunna, dove potevo giocare con i miei cugini Antonio e Paolo. Ma non passò molto tempo e fui chiamato ad un'altra attività: la preparazione alla prima comunione. Ci recavamo in chiesa io e i miei compagni per seguire i corsi di preparazione al grande evento del nuovo Sacramento.

Finalmente arrivò il giorno della cerimonia sacra. Era il giorno 16 di maggio del 1937, era di domenica. Contrariamente alla stagione, il cielo era grigio; non c'era il sole. Il luogo di ritrovo era la cappella dell'Immacolata in via arc. De Mitri. Lì ci riunimmo tutti e, quando fu il momento, le maestre di catechismo ci ordinarono in file di tre e ci avviammo verso la chiesa matrice in via Dante. Ricordo che eravamo tutti assorti, silenziosi e tranquilli. Sembravamo dei ragazzi di collegio. Salimmo il sagrato ed entrammo in chiesa. Prendemmo posto sui banchi, sistemati in due file parallele e attendemmo l'inizio della cerimonia. Celebrava la messa il parroco don Pippi Stanca. Così, come eravamo stati preparati, ci avviammo all'altare a ricevere per la prima volta il Sacramento della Eucaristia. Poi tornammo sui banchi ai nostri posti. Finita la cerimonia religiosa, ci avviammo all'uscita per tornare ciascuno alla propria casa e cominciare il secondo tempo della cerimonia. Era tradizione in quei tempi che, ricevuta la prima comunione, si andasse dagli amici di famiglia, dai conoscenti, dai vicini di casa, dai parenti, per baciare la mano in segno di devozione e, naturalmente, per ricevere un obolo in soldini o, qualche volta, in pezzi più grossi. Ricordo che, alla fine del giro, avevo racimolato quattro lire e otto soldi (un soldo era pari a cinque centesimi di lira).

Anche in casa era un giorno diverso: mia madre aveva acquistato dalla macelleria di "Cozzune" (Antonio Nuzzo) la carne di maiale, simbolo del giorno di festa. Infatti allora la carne della domenica o settimanale era privilegio di pochi. I più si permettevano questo grande lusso durante le festività di Natale, di Pasqua e nei giorni dei festeggiamenti dei santi patroni del luogo.

A tavola mia madre si lasciò andare alle lacrime per l'assenza di mio padre che ancora era in Africa Orientale a guadagnare col proprio sudore qualcosa per la famiglia. Rocco era felice e commosso. Mi voleva un gran bene. In quella circostanza era venuto a farmi festa, perché gli altri giorni si era trasferito a lavorare dall'aeroporto di Galatina a quello di Porto Cesareo e la sera non rincasava.

Nel pomeriggio passò Beniamino di Melpignano per le vie del paese (passava solo di domenica) spingendo un carrello, a vendere gelati. Rocco mi comprò una "coppeddha" che era un piccolo cono pieno di pasta di gelato. All'indomani egli partì per riprendere il suo posto di Lavoro, ma dopo qualche giorno tornò a casa con un piede acciaccato: un grosso tubo di metallo gli era caduto sull'alluce del piede destro e gli faceva molto male. Stette più di una settimana a riposo e poi ritornò a riprendere il suo Lavoro.

Io, intanto, tra l'altro, avevo cominciato a dilettarmi col "fai da te". Avevo osservato una bilancia, presa in prestito per misurare qualcosa che ora non ricordo. Era una di quelle bilance formate da due piatti appesi ad un'asta con tre catenine ciascuno. Mi venne il desiderio di possedere una di quelle, e non mi rimaneva altro che cercare di costruirla da me. Presi due coperchi di scatole che contenevano lucido di scarpe; con un chiodo feci tre fori ai bordi di ciascuno, cercando di dividere la circonferenza in tre parti uguali; presi un fuscello di olivo, un filo di spago da cui tagliai sei pezzettini, tre per ogni piatto, con cui fissare i miei coperchi al fuscello che doveva fungere da asta bilanciante. Legai un altro filo di spago al centro del fuscello, ma più lento, in modo da farlo scorrere sullo stesso fuscello per trovare il punto esatto di bilanciamento dei due piatti. E fui molto felice quando i miei coperchi raggiunsero l'equilibrio. Continuai a simulare vendita di verdure, di legumi, di pasta, ed altro, servendomi, come pesi, di sassolini. Infatti in molte famiglie di contadini esisteva un'altra bilancia facsimile: i piatti erano fatti di paglia di grano intrecciata con giunchi delle paludi; tre corde li fissavano ad un'asta di legno con una funicella al centro del bilanciamento; i pesi erano rappresentati da grossi sassi che dovevano equivalere al chilogrammo, ai 500 e ai 200 grammi, poichè non si andava tanto per le sottili nel misurare la merce.

C'era in me un desiderio istintivo di voler fare tutto ciò che mi capitava tra le mani e tutto ciò che facevano gli adulti. E quell'hobby era diventato la mia attività principale.

IL RITORNO DI MIO PADRE

Ora avevo trovato un altro divertimento: avevo potuto osservare, quando andavo in campagna, che alcuni pastori richiamavano parte del gregge lanciando sassi molto lontano. Volli sapere come riuscivano a scagliare sassi , a quelle distanze, molto più lontano di quanto si riuscisse a fare con le sole mani. Mi dissero che ciò era possibile mediante la "fiondula". Chiesi di farmene osservare una, giacché anche mio fratello Rocco, per divertimento, la usava. La fionda è costruita mediante una sola funicella: ad un'estremità si ricava un anello per infilarvi il dito indice; al centro, mediante due nodi, si creano tre segmenti paralleli della lunghezza di dieci centimetri circa, su cui verrà poggiato il sasso; l'altra estremità rimane libera e viene bloccata tra il pollice e l'indice. Fissato il sasso, si tende il braccio destro; si fa ruotare la funicella, la cui lunghezza sarà m. 1,50 circa, all'indietro per tre o quattro volte e poi con uno scatto energico del braccio si lancia il sasso nella direzione voluta, avendo la precauzione, mentre si lancia, di lasciare andare l'estremità della funicella al momento giusto, altrimenti il sasso cade vicino al lanciatore o, per la forza d'inerzia, non sganciandosi dalla funicella, può provocare ferite serie. Infatti il pericolo più frequente è quello di colpire incidentalmente, per i novizi, le persone che sono vicine.

Io volli subito costruirne una ed esercitarmi a scagliare sassi. Non sto a raccontare quanti tentativi iniziali fallirono; ma presto cominciai a prendere la mano, e quindi riuscivo a scagliare i miei sassi che, per la verità, all'inizio erano piccoli, perché bisognava disporre di una certa forza per poterli lanciare ad una considerevole distanza. Ma ero molto contento dei miei progressi, e mi esercitavo sopratutto in campagna, quando andavo a fare compagnia a Rocco.

A volte lui era impegnato a lavorare alla giornata da altri contadini e allora io, che fremevo dal desiderio di migliorarmi sempre di più, non resistevo alla voglia di usare la fionda e mi esercitavo nel mio cortile, stando attento alla precisione e non alla distanza. Infatti il cortile era lungo circa 40 metri, ma la fionda ormai li superava di più del doppio. E gli incidenti non si fecero attendere: un giorno, mentre mi esercitavo, sicuro che il campo fosse libero, cominciai a lanciare sassi. Ad un tratto sento a distanza, fuori dal cortile: -AHI, AHI, AHI! Avevo fatto centro: avevo colpito una Donna che si era affacciata per chiedere se era passato Rocco "Cciccone" (Zaminga) con la vendita dell'Olio al dettaglio. Infatti Rocco Cciccone passava per le vie del paese quasi ogni giorno con i suoi due grandi recipienti contenenti Olio che vendeva alle famiglie. Avevo colpito la Rosina Pensa. Subito mi fecero il processo: non dovevo più usare la fionda nel cortile. Si accertò l'entità della ferita e per fortuna sua e mia, era molto leggera; solo uno sgraffio, poichè il sasso l'aveva sfiorata. Ma io capii che veramente non dovevo più provare nel centro abitato.

Da un giuoco all'altro, da un sasso all'altro, da un luogo all'altro, passavo le giornate e intanto era arrivata l'altra Primavera. Apprendemmo da una lettera di mio padre che il suo ritorno era imminente e fummo molto felici di poter riabbracciare dopo due anni nuovamente il nostro "Tata" (perché allora il privilegio di "papà" era concesso solo ai ricchi).

Una domenica, mentre stavamo pranzando, venne una persona a comunicarci che mio padre e mio zio Peppino erano scesi alla stazione di Corigliano d'Otranto e che si erano avviati a piedi verso Castrignano. Rocco, tutto contento, prese la bicicletta, mi fece sedere avanti e partimmo subito. Raggiungemmo i reduci africani più in qua dell'incrocio Maglie-Lecce. Dopo i rituali e sentiti abbracci, ci avviammo anche noi per il ritorno. Ma io volevo far vedere a mio padre come avevo imparato bene a camminare in bicicletta. Mi feci dare quella di Rocco e cominciai a pedalare; ancora non montavo in sella, perché non avevo l'altezza sufficiente. Dopo un tratto di strada, mentre i reduci raccontavano ai pochi presenti le prime loro peripezie, senza accorgermi comincio a ruzzolare con tutta la bicicletta non rendendomi conto che cosa stesse succedendo. Ero appena caduto che già i soccorritori erano su di me e mi sollevavano da terra; altri raccolsero la bicicletta. Che cosa era successo? Il piano stradale a quel tratto era più alto della campagna e non vi era nessun muricciolo di protezione; io, senza saperlo, avevo fatto un salto di circa un metro con tutta la bicicletta nella campagna sottostante. Me la cavai con un bel bernoccolo in fronte. Se ci fosse stato un muretto di protezione, ciò non mi sarebbe successo, perché riuscivo molto bene a percepire l'ostacolo-muro, e quindi a mantenermi alla dovuta distanza.

Quando arrivammo a casa, le mie sorelle e mia madre fecero festa. Mio padre volle subito prendere in braccio il suo rampollo che ancora non conosceva. Lo strinse forte e cominciò a coccolarlo; ma Narduccio, che non aveva mai visto quella persona, e persino con la barba un po' lunga, si mostrò infastidito e voleva scendere. Cresceva bello e robusto; vestito ancora come una femminuccia, poichè allora si usava vestire i maschietti fino ad una certa età con le vestine; i pantaloni erano solo dei maschi da quando diventavano autosufficienti. Mia madre si accorse subito del promontorio che avevo in fronte e le dovemmo spiegare l'accaduto. Non mancarono i velati rimproveri verso mio fratello e gli altri. Ma tutto finì lì.

Passate le prime emozioni e congedatisi i vicini, rimanemmo soli in casa. Mio padre aveva portato con sè due cassette di legno e volevamo sapere subito che cosa contenessero. Vi erano chili di caffè africano, molte sigarette, tra cui le "tre stelle" ed altre cose che ora non ricordo.

All'indomani, quando i miei andarono fuori, rimasto solo in casa, cominciai a rovistare nelle cassette di mio padre e, tra l'altro, trovai dei cilindri di gomma molto sottile, arrotolati su se stessi. Al ritorno di mio padre gli chiesi che cosa fossero quegli oggetti che sembravano come palloncini venduti alle feste patronali. Infatti mio padre mi disse che erano palloncini che, una volta gonfiati, lanciavano in alto per rivelare la loro presenza agli aeroplani italiani. Così cominciammo a gonfiarli e a giocare. Ma quando fui giovanotto capii che quelli erano profilattici forniti ai militari italiani in Africa per proteggersi da eventuali malattie veneree molto diffuse in quelle regioni.

Narduccio sventolava fuori nel cortile quei famosi palloncini che noi avevamo conosciuto durante le feste patronali, durante le quali era possibile Ascoltare la Musica dei concerti bandistici, poichè non esistevano nè la radio, nè strumenti musicali che erano privilegio di pochi. Ricordo che mi rimase impressa quella parte della sinfonia del Barbiere di Siviglia in "mi minore" che fa "si ssissi dosi". Attendevamo quelle feste come una "Cresima Santa", poichè rappresentavano un momento di svago e di gioia collettiva.

Il caffè e le sigarette, i the ed altre spezie finirono tutti in regali al medico comunale, all'impiegato del Comune e ad altre personalità allora importanti del luogo.


I capitoli tratti dall'autobiografia "Un Cieco Che Vede" del prof. Antonio Greco, vengono pubblicati con l'autorizzazione dell'autore. Per contattare il prof. Antonio Greco e per informazioni sull'opera completa si può Scrivere a griconio@gmail.com