DiGrande.it

Non Vedenti, Braille e Tecnologie di Stampa

Questo sito usa Cookie per personalizzare contenuti e annunci, fornire funzionalità per social media e analizzare i collegamenti. Chiudendo questo banner o continuando la navigazione acconsenti al loro uso.
Leggi la Cookie Policy di DiGrande.it

Il Fiocco Celeste - Da “Un Cieco che Vede” del prof. Antonio Greco

Aggiornato il 17/02/2021 08:00 
 

Mio padre aveva lasciato mia madre incinta e, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, arrivò il mese di luglio. Una domenica mattina venne mia zia: era molto, molto presto; forse mia madre l'aveva fatta chiamare; la zia ci condusse tutti nella sua campagna di nome "Aloni", che significa "aia". Lì ci trovammo con tutti i suoi figli: la Pippi, la Cisaria (Cesaria), Ntoni e Pavluccio. Paoluccio era il più piccolo, ma anche il più prepotente. Possedevano un carrettino di legno, per bambini, con quattro ruote del diametro di una decina di centimetri, largo circa 50 e lungo quasi 80. Giocavamo con quello, ora facendoci trainare, ora trainando. Paoluccio voleva essere sempre il protagonista, e quando non ci riusciva diventava aggressivo. Noi, che eravamo più grandicelli, lo lasciavamo fare ed egli ne approfittava. Aveva appena tre anni, ma lasciava trasparire il suo forte temperamento.

Intanto il sole si era levato in cielo e cominciava a farsi sentire il caldo, quando arriva mia zia Nunna e ci dice: - Vi porto una bella notizia! La zia Esterina ha comprato (così si diceva allora) un bel bambino. - Noi tutti intorno a farle festa e a chiedere: è bello? Come si chiama? E dove sta? Lo possiamo vedere? - E lei: -Più tardi vi conduco da lui e così lo potrete conoscere. - Noi tutti festosi a saltare e cantare: -Andiamo al bambino, andiamo al bambino.

Dopo che la zia ebbe messo a posto le sue cose, disse a me e alle mie sorelle: - Ora andiamo a farvi vedere il fratellino. Vedrete che è un bel bambino. -

Ci incamminammo verso casa mia, e appena arrivati, corremmo tutti nella stanza da letto, dove c'era mia madre col figlioletto accanto. Ci lasciò accarezzarlo. Poi ci disse che gli aveva dato il nome di Leonardo Luigi, perché quel giorno al paese si festeggiava San Luigi. Era la domenica del 19 luglio del 1936. Così la nostra famiglia si arricchì di un nuovo arrivato. Tutti facemmo festa. Le mie sorelle volevano tenerlo in braccio, ma mia madre diceva che ancora era troppo piccolo e che bisognava farlo riposare, dormire e allattare. La nonna aveva sacrificato una gallina per fare brodo: quella era l'usanza del tempo. Non c'erano altri conforti. A mezzogiorno mia madre si fece portare un foglietto e busta e scrisse a mio padre la lieta notizia. Quando egli rispose disse che era molto contento, ma che era dispiaciuto, perché non era stato vicino alla famiglia; però si riprometteva di far festa col suo ritorno.

Ci si decise di chiamarlo col diminutivo di Leonardo: Narduccio.

Narduccio già dai primi giorni mostrava un suo temperamento: vagiti risoluti e decisione nella suzione. Diceva mia madre che faceva lunghe poppate e cresceva sano e forte. Ora si cominciò a pensare al battesimo, perché in quei tempi non si aspettava quasi mai più di un mese dopo la nascita per battezzare il neonato.

L'attenzione ora era rivolta alla scelta del padrino che cadde su un amico e vicino di podere di zio Pasquale e zia Lucia: Salvatore di Corigliano detto "Tore de lu Moddhu". Era una brava persona, un onesto e infaticabile lavoratore, come in quei tempi erano quasi tutti i contadini. Si fissò la data del battesimo: una domenica di agosto. Quella sera a casa mia si fece festa. Ci furono gli invitati: vicini di casa e parenti. Durante la cerimonia si offriva agli invitati una tazzina di caffè, fatta però di orzo abbrustolito, e una piccola pasta di quelle che si cuocevano al forno insieme col pane. Gli auguri che gli invitati facevano a mia madre in "grico" erano: - Na s'ochhi calì ssorta! - Che significava: Che ti abbia buona sorte.

Quell'anno, dato che non c'era mio padre, non coltivavamo il tabacco, ma eravamo impegnati solo nella raccolta ed essiccazione dei fichi. Quindi parecchi giorni ci trattenevamo a casa e io trascorrevo il tempo passeggiando con la bicicletta, giocando con gli amici, divertendomi nel Giardino a salire sugli alberi. Infatti c'era un albero di fioroni neri prima, e fichi poi, che per quasi metà si appoggiava sul tetto della stalla; io mi divertivo a salire su quella terrazza, sia attraverso l'albero che da una scaletta molto stretta, ricavata a suo tempo nel muro a secco, che da un'estremità si appoggiava alla stalla.

Anche alcuni amici erano cambiati: la famiglia di Filomeno, padre di quel ragazzo che mi procurò l'infortunio all'Occhio, traslocò e in quell'abitazione venne un'altra famiglia che allora aveva due figli: Leonardo (Narduccio) e Nicola, affetto da poliomielite agli arti inferiori. La mamma si chiamava Nena e il padre Antonio che era malato. Infatti dopo poco tempo morì. I figli erano molto gioviali e simpatici, e presto feci amicizia anche con loro. All'angolo destro, in fondo al cortile abitava un'altra famiglia: il padre Antonio (Burlinchi), la madre Abbondanza (Puddanzia) e tre figlie: Uccia, Teresina e Immacolata; poi nacque anche la Nena. Accanto a casa mia abitava una famiglia di marito e moglie: Salvatore (Tore) e Carmela che erano anche compari nostri.

Rocco aveva trovato Lavoro al costruendo aeroporto di Galatina; mia madre percepiva la paga, perché mio padre era militare, e allora, giacché la bicicletta che avevamo mostrava segni di senilità, Rocco decise di comprarne una nuova. Andarono mia madre e mio fratello a Martano da "Mesciu Teta" (maestro Nocita) il quale aveva un negozio di biciclette e comprarono una più moderna con i freni a bacchetta (così si diceva per distinguerli da quelli a guaina). Il prezzo pattuito fu di 160 lire.

A casa facemmo tanta festa per la bicicletta nuova. Io la osservai tutta e provavo i diversi comandi. Poi chiesi a Rocco se me la faceva provare, ma egli aveva timore che gliela danneggiassi. Io gli assicurai che sarei stato attentissimo e allora me la affidò. Per me fu come se oggi salissi su un aeroplano, per quanto mi sentivo contento. Ancora ero troppo basso, e le biciclette allora erano abbastanza alte, e quindi mi accontentavo di stare in piedi sui pedali, senza montare sulla sella. Dopo qualche giro Rocco me la riprese, perché doveva fare ora lui qualche passeggiata più lunga, ed era giusto così. I primi giorni, quando si ritirava, con uno straccio puliva la bicicletta e la copriva con un panno. Ma col passare del tempo l'attenzione scemò e non si prestò più tanta cura. Invece il nostro vicino e contiguo Salvatore aveva acquistato una bicicletta con le ruote grosse, che per anni curò come un gioiello: la spolverava, la ungeva con la vaselina per la ruggine, la copriva con un panno di lana, perché non si raffreddasse.

Arrivò anche quell'anno l'inverno, e riprendemmo la stessa vita dell'inverno passato: il focolare, le trappole per gli uccelli, i giochi invernali, con la pioggia in casa, e col sole fuori.

L'anno successivo è un anno storico per Castrignano, per un avvenimento che cambiò in buona parte la vita e le abitudini dei cittadini.


I capitoli tratti dall'autobiografia "Un Cieco Che Vede" del prof. Antonio Greco, vengono pubblicati con l'autorizzazione dell'autore. Per contattare il prof. Antonio Greco e per informazioni sull'opera completa si può scrivere a griconio@gmail.com