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L'Occasione fa il Cieco Ladro - Da “Un Cieco che Vede” del prof. Antonio Greco

Pubblicato il 31/03/2021 08:00 
 

Il benessere, ormai, era diventato un ricordo anche per l'Istituto. Anche in Istituto era entrata l'"annona". Il pane era razionato. I cibi scarseggiavano e la fame si faceva sentire. Ci passavano una pagnottina di 150 grammi per tutto il giorno. Se la mettevi nel latte la mattina, non la mangiavi a mezzogiorno o la sera. Bisognava dividerla come meglio la fame comandava. Di sera, a volte, ci davano soltanto cipolle al forno con un po' di marmellata e, per chi le poteva mangiare, andava bene; ma per me, che non riuscivo proprio a tollerarle, erano guai seri. Come le mettevo in bocca, mi veniva da rimettere, ma non c'era niente da fare. Dovevo mangiarle, altrimenti la mattina successiva, invece del latte, mi trovavo le cipolle; e poi me le trovavo al pranzo, finchè si stancavano e mi liberavano da quel supplizio.

In classe, invece, trovavo tutta la comprensione possibile. La mia Insegnante era un tesoro di umanità. E in quei mesi era ancora più disponibile e affettuosa. Era tormentata dalle vicende belliche: Napoli, sua città natale, era oggetto frequente di incursioni aeree nemiche, e lei era sempre in apprensione. Però non si distraeva dalla sua missione di educatrice. Era sempre pronta, ben preparata in tutte le materie di insegnamento. Era un piacere averla come maestra. Si rammaricava per la scarsità di cibo a nostra disposizione.

Intanto in Istituto ognuno di noi cercava di aiutarsi con le famiglie. Ma il problema era sempre lo stesso: le famiglie della maggior parte dei ragazzi erano lontane e ben poco potevano fare. Ma anche qui la manna venne dal cielo, cioè dal parlatorio.

Passando per andare a tavola, molti di noi avevamo osservato nei pressi del "parlatorio" grossi scatoloni, gli uni accanto agli altri, o sovrapposti. Non so come, ma si seppe che quegli scatoloni erano pieni di fichi secchi. "Il bisogno aguzza l'ingegno", e così fu. Qualcuno ebbe l'idea di attingere a quel "ben di Dio" per sfamarsi. Confidò il progetto ai più intimi; questi a loro volta ad altri intimi, e in pochi giorni iniziò un fermento nascosto tra molti ragazzi davvero straordinario. Chi sfogliava "Gennarielli" (giornali per i ragazzi delle scuole elementari) per ricavare cartocci destinati ad essere riempiti di fichi. Chi sfogliava qualche libro vecchio per lo stesso fine e tutti erano intenti a lavorare. Con quei preziosi cartocci la notte, alla chetichella, uscivano dai dormitori al secondo piano e si avventuravano giù per le scale al piano terra, all'assalto degli scatoloni. Facevano come i topi: praticavano piccoli fori alle facciate nascoste degli involucri e, pian piano, estraevano il "nettare" che pressavano nei cartocci. Naturalmente, facevano come le formiche: ne prendevano in gran quantità per i giorni futuri, e qualsiasi posto era diventato nascondiglio sicuro della refurtiva: l'interno dei pianoforti, sotto e dentro i materassi che ancora erano pieni di crino vegetale, sotto i letti, nei comodini; insomma in qualsiasi angolo che potesse tenere nascosta ad occhi indiscreti la preziosa "manna".

Il lettore a questo punto potrà chiedersi: perché l'estensore parla in terza persona plurale e non in prima? L'osservazione è legittima, ma razionale è anche la risposta: io non partecipavo a quella campagna collettiva dell'estrazione dei fichi. Con altri due compagni ed amici intimi, avevamo escogitato un altro progetto più raffinato, meno rischioso e più redditizio.

Di fronte alla Cucina vi era la "dispensa", deposito di alimenti di ogni genere. Quella era la nostra mira. La mia pattuglia era formata dal sottoscritto, da Antonio Spezzaferri e da Cosimino Gabbellone. Ci mettemmo alla ricerca di chiavi che potessero aprire quella porta. Provammo tante chiavi di altre porte, ma niente da fare. Finalmente, una notte, su un tavolo, all'interno del "parlatorio", troviamo un cestino con un grosso mazzo di chiavi La nostra gioia è incontenibile. Ci dirigiamo subito verso la porta del "paradiso" e, una dopo l'altra, proviamo quelle chiavi, finchè finalmente una gira e ci spalanca il vietato uscio. Io sono il capopattuglia; gli altri mi seguono.

Subito a destra si presenta una cassa di legno larga circa un metro, alta un sessanta cm, e profonda una cinquantina di centimetri, quasi piena di pagnottine. "Non toccate", ingiungo agli altri due. Procediamo l'esplorazione e troviamo una grande forma di formaggio incominciata; ma rimaneva più della metà. Subito dopo, posto ad angolo retto rispetto al lato destro della piccola camera, un lungo tavolo su cui facevano mostra di sè altre golose primizie: forme di formaggio più piccole, scatolette di ogni genere, un grande "tegame" con più di metà di una grande frittata, anfore di olio e tanto altro ben di Dio. La nostra gioia trabocca. Intimo ai miei compagni di non toccare niente, perché ogni cosa dovrà rimanere al suo posto. Non dobbiamo lasciare nessuna traccia. Prendiamo ciò che può contenere il nostro stomaco e nulla più. I miei fedeli condividono il principio, e per quella notte prendemmo una pagnotta ciascuno, tagliuzzammo sottili fettine di formaggio, qualche altra cosetta e ce ne andammo a consumare in posti più sicuri.

Questa nostra attività si prolungò per ben due anni e più, senza che mai nessuno dei dirigenti manifestasse sospetti. Ma non toccò la stessa sorte ai ladri di fichi. Ben presto i segni delle razzie furono evidenti. La mancanza di molti fichi secchi fu scoperta, e cominciò la caccia ai colpevoli. Non fu difficile individuarli, perché avevano creato tracce dappertutto.

Ricordo che una sera, mentre eravamo a tavola, arriva il direttore Fabbri con una cameriera che posa sulla tavola una grossa cassa.

"Questa è piena zeppa"! Esclama il direttore. La cassa era di Antonio Donato, un ragazzo sordastro, molto bravo in pianoforte. La sala è pervasa da un leggero mormorio. Il direttore intima il silenzio e, mentre tutti noi obbediamo al comando, si sente gridare ad alta voce, nel pieno del silenzio: "Trifone"! Tutti scoppiamo in una grossa risata. Antonio Donato non aveva sentito l'ordine del direttore e, pensando che ancora si stesse facendo chiasso, per farsi sentire aveva gridato ad alta voce Trifone, che era un altro nostro compagno di Rutigliano (Bari).

I provvedimenti disciplinari non si fecero attendere: per chi poteva rientrare in famiglia durante le prossime vacanze natalizie fu stabilito che per punizione dovevano rimanere in Istituto; per altri che non avevano questa opportunità, si presero altri provvedimenti. La mia pattuglia che, invece, faceva la parte del leone, la passò franca, e ci godemmo il tepore del focolare domestico durante le feste natalizie. Il nostro segreto rimase tale, perché ci impegnammo, finchè eravamo in Istituto di non confidarlo a nessuno e di prendere quanto si poteva consumare seduta stante. Così ci andò sempre bene fino all'ultimo giorno di nostra permanenza in Istituto. Solo dopo, abbiamo raccontato le nostre imprese che noi chiamavamo "gloriose", perché sia noi che quei tanti altri ragazzi che avevano prelevato i fichi secchi dagli scatoloni, non eravamo stati spinti dall'istinto di "cleptomania", ma solo e solamente dalla fame che, al contrario dei primi anni, era debilitante, "fame da lupi".


I capitoli tratti dall'autobiografia "Un Cieco Che Vede" del prof. Antonio Greco, vengono pubblicati con l'autorizzazione dell'autore. Per contattare il prof. Antonio Greco e per informazioni sull'opera completa si può Scrivere a griconio@gmail.com