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Il nepotismo, l'Unione Italiana dei Ciechi e i liquidatori della baracca

Pubblicato il 27/07/2020 19:00 
 

Non penso che sia prassi comune e non penso che il comportamento sia generale, ma il nepotismo all'interno dell'Unione Italiana dei Ciechi e degli ipovedenti è un comportamento che è esistito in passato e continua ad esistere anche oggi, e nessuno sta facendo niente per arginarlo. Chi non conosce situazioni in cui il favoreggiamento di parenti e amici viene perpetrato, nell'assegnazione di uffici, incarichi, ecc., indipendentemente dai loro meriti, probabilmente è iscritto in una sede UICI di altissima moralità, oppure vive in fantasilandia dove tutto è concesso. Oltre all'etica e alla morale non è che ci si possa appigliare ad altro, come per esempio allo Statuto e al Regolamento: questi comportamenti non possono certo essere normati, perché dovrebbe essere buon senso dei dirigenti di turno comprendere quali siano i limiti da non oltrepassare, o meglio, ai quali non far neanche avvicinare famiglia, parenti e amici.

Mentre ogni occasione è buona per parlare retoricamente dei soci che non rinnovano la tessera, cioè coloro che scappano dall'Associazione, concretamente si assiste a un imbarazzante degrado di atteggiamenti e comportamenti che appunto fanno allontanare soci e persone. Lo Statuto vieta a un dirigente di beneficiare di rapporti di Lavoro con l'Unione (Art. 50, comma 3 e 4), ma non può esprimersi sui discendenti o sugli amici di quel dirigente che costui volesse coinvolgere nelle attività lavorative dell'Unione.

La tentazione di un dirigente di favoreggiare propri parenti e amici è forte in quei dirigenti deboli e con poca personalità. Come se quelle piccole e misere stanzette delle sedi territoriali fossero alla stregua di feudi da gestire col proprio personale metro di giudizio, quasi sempre sbagliato. Naturalmente è tutta illusione, è solo la visione distorta di dirigenti che considerano il loro ruolo, in seno a un'Associazione sempre più piccola e priva di identità, come il punto di arrivo della loro vita, come un fine e non come un mezzo per poter costruire un futuro condiviso con tutti. La giustificazione retorica batte sempre là, nel Sociale, nella retorica dei nostri ragazzi da salvaguardare, nei nostri anziani da assistere, nei nostri soci da Ascoltare. I fatti poi sono ben altri, perché il difficile nella direzione dell'Associazione arriva quando quella retorica assembleare chiede d'essere concretizzata con fatti tangibili. Mai che una volta al termine del suo mandato un dirigente dicesse: sì, è colpa mia, non ho saputo dare seguito ai miei propositi. Invece le autogiustificazioni si sprecano... e i reimpasti nelle varie dirigenze nazionali, regionali e territoriali diventano consuetudine.

Non è ovunque così, lo so bene. Alcune realtà locali lavorano molto bene e le notizie delle loro attività viaggiano per tutto lo stivale, purtroppo prese a modello da nessuno. Penso per esempio a Brescia e alle sue invidiabili attività, sede territoriale di UICI da elogiare. Non è questione di pecunia. Un dirigente che non sa creare nulla a costo zero, non saprà creare nulla anche se avesse milioni di euro a propria disposizione. È questione di inventiva, di creatività, di saper combinare proficuamente le risorse che si hanno, piccole o grandi che siano. D'altronde siamo di fronte a dover combinare materie di alto livello come psicologia, sociologia, antropologia culturale... chi mai dovrebbe saperlo fare, quando il problem solving e il pensiero computazionale sono al di là di ogni più rosea conoscenza associativa? Si viene solo a creare il paradosso che tutti i dati da sintetizzare sono in mano a chi non ha la capacità di sintetizzarli, e manco l'umiltà di saper chiedere aiuto. La noia invece impera in una lunga ed estenuante ripetizione del passato, giusto per accarezzare i sensi vicarianti e la retorica d'accatto. Non c'è alcuna visione del futuro, né a breve, né a medio, né a lungo termine. Tra cinquantanni i ciechi cosa faranno, se oggi questa società non li considera neanche come membri attivi e capaci? Qualcuno mai si è chiesto se quel monumento di Legge 113 del 1985 sia stato davvero un bene? oppure qualcuno si chiede se non sia invece stata una toppa per il presente di allora che ha tarpato le ali ai ciechi di oggi, del tutto o quasi scollegati dal mondo lavorativo odierno? Quale identità Sociale hanno i ciechi di oggi? Quale illustre venerabile dobbiamo ringraziare per questo grandioso fallimento Sociale? Tra cinquant'anni di questo passo i ciechi torneranno a calci davanti alle chiese a mendicare. Lo sciocco mi risponderebbe che tra cinquant'anni la biotecnologia ridarà la Vista ai ciechi. Già, tale e quale a come pensava uno sciocco negli anni ottanta. L'Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti riesce ad avere una visione della società in cui tra cinquant'anni i ciechi che Tutela dovranno vivere? Per me non ha neppure una visione a medio-breve termine, figuriamoci se oggi l'Unione possa preoccuparsi di costruire le basi per una società che nel prossimo lungo futuro riesca ad accogliere alla pari le persone con disabilità visiva. D'altronde chi dovrebbe farlo? L'Unione è troppo preoccupata di vivere alla giornata, incapace di Leggere una realtà diversa da quella che riesce a fotocopiare da altre brutte copie ciclostilate chissà da chi e chissà quando, mentre i suoi soci prima si allontanano e poi se ne disinteressano del tutto, ed hanno tutte le ragioni per farlo. Anche uno stoico arretrerebbe di fronte a tutto questo.

Evidentemente un limite non c'è e ciò che è concesso o autoconcesso nei piani alti del palazzo, viene lasciato fatto correre nei piani bassi. Quindi il nepotismo si insinua come i tentacoli di una piovra, e nessuno ha il potere di fermarlo. Al centenario c'è arrivata, a forza d'inerzia, ma al bicentenario... Diciamolo: l'Unione è giunta a una tacita liquidazione e gli attuali dirigenti, che si apprestano a riconfermarsi al prossimo Congresso, o quelli che sono stati riconfermati o saranno riconfermati nelle assemblee elettive, sono i suoi annoiati liquidatori, quelli che hanno il compito di chiudere la porta e spegnere la luce.