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Il Matrimonio - Da “Un Cieco che Vede” del prof. Antonio Greco

Pubblicato il 07/07/2021 08:00 
 

Stava per finire la mia vita da scapolo. Durante l'estate io e Teresa prendemmo la decisione di unirci in matrimonio. Ormai avevamo già una certa età: io avevo trentacinque anni e lei ventinove. Dal quadro generale si deduceva che non avrei potuto perdere anni di insegnamento, poichè l'offerta di posti per i professori era molto alta.

Così incominciammo i preparativi: visite ai negozi di mobili, Ricerca di un'abitazione in affitto, e di tutto ciò che era necessario per la cerimonia.

Ormai avevo deciso la mia scelta dell'altra metà: Teresa.

Durante la mia vita da scapolo avevo conosciuto molte ragazze; con alcune di esse mi ero fidanzato successivamente. Appartenevano un po' a diverse categorie sociali: dalle contadine alle universitarie.

Tra le prime simpatie, da adolescente, era capitata Teresa. Era una preadolescente vispa e simpatica. La sua famiglia abitava quasi di fronte a casa mia, e perciò avevo occasione di incontrarla molte volte durante la giornata. Naturalmente io ero fuori a Studiare, e potevo incontrarla solo nei periodi di vacanza. Di tanto in tanto capitava qualche ingenuo abbraccio e nulla più, finchè non mi decisi di renderle palese non solo la mia simpatia nei suoi riguardi, ma la decisione di volerla come mia ragazza, in altri tempi si direbbe: "di chiederle la mano". Lei mi dette una risposta significativa: "Se devi venire per scherzare, o pensando di divertirti, devo dirti che ti sbagli, perché io pure ti stimo e mi sei molto simpatico..., e non vorrei affezionarmi e poi essere messa da parte".

Io rimasi sorpreso da quella dichiarazione e nello stesso tempo colpito da quel sentimento di affetto e di serietà. In quel momento le offrii tutte le garanzie, anche se, forse dentro di me, non ne ero pienamente convinto, ma il seguito dette ragione a lei: il suo attaccamento, la sua costanza, il comportamento corretto (non era pettegolina), il grande amore che nutriva per me, mi convinsero a sciogliere le mie riserve.

Ma la mia scelta su Teresa fu determinata da altre considerazioni e sentimenti: è già difficile per un vedente trovare fidanzate prima e mogli poi, certamente fedeli e moralmente corrette. Teresa sembrava possedere queste garanzie, poichè, abitando vicino a casa mia, poteva essere osservata non solo dai miei familiari, ma da tutti i vicini che, in un paesino (tale era Castrignano), se vedono una pagliuzza, costruiscono una trave. E poi in me era sempre vivo il sentimento di redenzione dei poveri.

Teresa, come centinaia di famiglie della zona, apparteneva a famiglia povera e numerosa. Si sbarcava il lunario con lavori saltuari. Anche per questo rinforzai la mia decisione: volevo riscattarla dalla miseria. Volevo fare di lei una signora. ([I]). Durante gli anni cinquanta la vita era ancora dura per tutti i lavoratori, operai in particolare. Poi si allargò il fenomeno dell'emigrazione, e per fortuna, molti salvarono la situazione familiare, emigrando sopratutto in Svizzera.

Dopo l'ultima Guerra pochi erano i possessori della propria abitazione, ma coi primi guadagni all'estero, il primo pensiero di ciascun emigrante fu quello di realizzare il sogno di tutta la vita: costruirsi la propria casa. E questa aspettativa ben presto si concretizzò per molte famiglie, tanto che successivamente, si andò all'altro eccesso: la costruzione di abitazioni molto spaziose e lussuose. Perciò la mia intenzione di fare di Teresa una ragazza diversa e riscattata, fu smentita dai tempi: ormai coi lauti guadagni all'estero e coi ricchi guadagni degli operai specializzati sul posto, si stabilì in tutta la zona un tenore di vita da benestanti, e fui contento che secolari differenze di categorie furono in breve tempo vanificate. Le persone diventarono tutte grandi, orgogliose, egocentriche ed esuberanti; però non mancarono e non mancano gli umili, i semplici e gli altruisti.

Ma torniamo a noi. Dopo varie peripezie, finalmente giungemmo alla vigilia del nostro matrimonio.

Ormai l'anno scolastico era cominciato da qualche giorno, e mi trovai impegnato su due fronti: la Scuola e i preparativi del matrimonio.

La Scuola ebbe inizio il primo di ottobre. Mi recai a Martano per prendere possesso della sede. Mi fu affidata una prima classe della Scuola media inferiore, allora ancora tradizionale, per cui ebbi l'incarico per l'insegnamento di Italiano, latino, Storia e Geografia. Era una classe tutta maschile. I ragazzini, accortisi della mia cecità, dapprima rimasero sorpresi, silenziosi, perplessi, turbati. Ma io ben presto sciolsi il gelo dell'incognito. Cercai di mettere tutti a loro agio, chiedendo notizie di ciascuno, delle loro famiglie, dei loro progetti futuri, raccontando qualche barzelletta, ed entrando nel vivo del nostro rapporto scolastico. Spiegai che ero il loro professore di lettere e che se sapevano mantenersi bravi alunni, educati, corretti e solidali tra di loro, mi avrebbero avuto dalla loro parte, e che da me avrebbero avuto comprensione e Sostegno. Le mie previsioni non si fecero attendere: quei ragazzini, provenienti da differenti ceti sociali, con bagagli educativi differenti, si aprirono: ben presto superarono la timidezza, l'imbarazzo e diventarono miei amici. Cercai di abituarli ad essere sempre sinceri e corretti, a non dire bugie, chè sarei stato più comprensivo per la verità e intransigente per le bugie. Con un dialogo persuasivo, pacato e amichevole riuscii a rabbonire anche i più riottosi. Avevano ancora solo undici anni ed è chiaro che il Carattere non si era ancora completamente Formato. In alcuni prevaleva ancora il temperamento; ma le mie parole penetravano come l'acqua benefica dopo la calura di una calda giornata. Anche quelli si sforzavano di non essere diversi e, dopo qualche mese, avevo una classe compatta, consapevole, rispettosa e amorevole. Facevano a gara per starmi accanto, per accompagnarmi nei miei spostamenti fuori dalla classe. A volte avvertivo che qualcuno dava degli spintoni ad altri per proteggere la sua posizione accanto a me.

Per quanto riguarda l'Educazione, avevo fatto una classe modello.

Un giorno, verso la metà dell'anno scolastico, venne il preside a fare una benevola ispezione. Stavamo facendo latino; in una frase si parlava di Saffo. Io, prima di assegnare gli esercizi a casa, spiegavo le novità che ricorrevano nei compiti a casa. Il preside, per saggiare la preparazione degli alunni, chiese a quello che stavo interrogando: - Chi era "questo" Saffo? - E l'Allievo: -"questa", sig. preside, era una poetessa greca. -

- Bravo, - esclamò il preside e, contento e soddisfatto, si congedò.

Ricordo ancora parecchi di loro, e qualcuno lo incontro ora, dopo tanti anni, sempre pronto a manifestarmi il buon ricordo del mio Metodo d'insegnamento e l'attaccamento alla mia persona. C'era Blasi, Castrignanò, Crisostomo, Coricciati, De Nicola, Grande, Saracino, De Pascalis (li sto scrivendo così, come li ricordo), Tasca, Bolognese, Mariano, Coluccia, Murciano ed altri. Manifestavano la loro squisita sensibilità in qualsiasi circostanza. Ero contento di loro, ed essi dicevano di essere fortunati ad avermi come proprio Insegnante.

La cosa sembrava vera, poichè all'inizio degli anni sessanta i metodi d'insegnamento avevano ancora tutto un sapore cattedratico imperniato sulla ferrea disciplina e sul concetto di Ipse dixit. Gli alunni temevano gli insegnanti; a volte avevano quasi terrore. Io, invece, cercavo di essere un amico, una persona più grande che metteva a loro disposizione la sua esperienza, la sua Cultura e tanta buona volontà. Mettevo in atto il sano principio di vari pedagogisti: "la Scuola deve educare e non punire"; "il Metodo preventivo e non quello repressivo". I fanciulli, il più delle volte, sono più sensibili e più recettivi degli adulti; e me lo dimostravano coi fatti. Ma per adesso lasciamo la Scuola e passiamo sull'altro campo.

I giorni passavano, e il nostro matrimonio era stato fissato per giorno 29 dicembre di quell'anno, 1962. Bisognava pensare a tante cose: mobili, vestiti, compari, sacerdoti, abitazione, addobbature, e tante e tante altre cosette che richiedevano molto tempo e pazienza.

Finalmente arrivò il giorno dello sposalizio. Era di sabato. Il tempo era cattivo. Il cielo coperto ci fece gli auguri, lasciando cadere acqua a catinelle, mentre ci recavamo in chiesa. Per fortuna eravamo in Auto e di acqua ne prendemmo poca. I compari d'anello furono, come ho detto avanti, due nostri amici, marito e moglie: il preside Uccio Donno e la moglie Rina Greco. La cerimonia si protrasse per più di un'ora. Di suonarci la Marcia Nuziale si era premurato il prof. Salvatore De Matteis.

Finita la cerimonia, ci avviammo verso la nuova abitazione in via XXV Luglio, casa di mio fratello Narduccio. Lì gli invitati si susseguirono per tutta la giornata, fino a tarda sera. Vennero a farmi gli auguri insegnanti dell'Istituto dei ciechi di Lecce. Il collegio dei docenti di Martano ci regalò un bel portafiori che ancora custodiamo gelosamente. Innumerevoli furono gli altri regali e partecipazioni di simpatia e di affetto. Gli ultimi a congedarsi da noi furono i parenti. Il dopo lo lascio alle fantasie.


I capitoli tratti dall'autobiografia "Un Cieco Che Vede" del prof. Antonio Greco, vengono pubblicati con l'autorizzazione dell'autore. Per contattare il prof. Antonio Greco e per informazioni sull'opera completa si può Scrivere a griconio@gmail.com