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Educazione: Esercizi di “Pregrafismo” prima dell'apprendimento del Sistema Braille

Pubblicato il 18/01/2021 08:00 
 

Durante i miei numerosi incontri con i docenti curricolari e di Sostegno o attraverso le pagine di Facebook, più e più volte mi è stato domandato se è necessario sottoporre il bambino privo della Vista ad esercizi specifici di “pregrafismo”, prima di avviarlo all'apprendimento del sistema di Scrittura e Lettura Braille.

Alla domanda sarebbe molto semplice rispondere con un “sì” o con un “no”, ma, considerata l'importanza dell'argomento, non mi comporterei assolutamente da persona responsabile e professionale nei confronti di coloro che, con profondo senso di responsabilità verso l'impegno che intendono portare avanti con massima consapevolezza, domandano una pertinente collaborazione. Ecco perché ritengo che sia più corretto accompagnare la risposta con qualche considerazione preliminare, prima di avviare un bimbo all'apprendimento della Scrittura Braille.

Si metta in conto, però, che, quando non si ha alcuna conoscenza diretta dell'alunno in questione, si corre il rischio di apparire saccente, pedante e, talvolta, persino poco affidabile professionalmente nel suggerire indicazioni molto generiche e non del tutto attinenti a quel particolare bambino.

Le mie considerazioni, pertanto, muovono dal presupposto di non conoscere alcuna Informazione dell'alunno e del suo sviluppo psicofisico, della sua motricità fine, dell'organizzazione bimanuale, dell'Orientamento spaziale e immaginativo, della sua Acquisizione dei concetti topologici e di tanti altri fattori non certo di secondaria importanza.

Tale doverosa premessa scaturisce anche dal fatto di essere stato sempre allergico a presentare la lista della “lavandaia” – almeno così si diceva un tempo lontano – snocciolando esercizi esemplificativi o suggerimenti per rispondere a domande così importanti. Sono certo, infatti, che ogni docente – facendo appello alle proprie risorse professionali e attenendosi alla conoscenza del proprio alunno – saprà senz'altro meglio di me rinvenire le strategie e calibrarle opportunamente sul soggetto.

Ciò nonostante, però, e contravvenendo a quanto sottolineato appena sopra, sarò costretto a suggerire alcune indicazioni valide per la generalità degli alunni minorati della Vista.

Mi corre anche l'obbligo di far presente che, a seguito della mia lunga esperienza vissuta in qualità di “tiflologo”, numerosi sono stati i colloqui e le conversazioni tenuti con genitori di bambini minorati della Vista. Con il passar degli anni, tale esperienza mi ha consigliato di essere sempre più prudente e cauto nell'accogliere e valutare le indicazioni provenienti dai genitori, poiché, ad eccezione di casi numericamente limitati, la maggior parte di loro vive la disabilità del figlio con lancinante emotività, assumendo comportamenti iperprotettivi, tali da esaltare qualsiasi piccola o naturale manifestazione del bimbo. Per contro – e mi sembra doveroso farne esplicita menzione – vi sono anche altri genitori che, non avendo accettato la disabilità, riescono a rimanere emotivamente freddi e distaccati, partecipando soltanto marginalmente all'evoluzione psicofisica del piccolo, tanto che, con il passar del tempo costoro elaborano, in maniera alquanto inconsapevole, persino una latente o manifesta reiezione verso la disabilità e, conseguentemente, nei confronti del figlio. È chiaro che, proprio costoro in particolare, fuorviati da pregiudizi o da opinioni sempre molto discutibili, si approcceranno al Progetto educativo con passività, non riuscendo ad immaginare un fiducioso futuro per quel loro piccolo.

Ma attenzione, però, poiché non ho difficoltà ad ammettere che atteggiamenti analoghi, appartenenti sia al primo che al secondo gruppo di genitori, talvolta li ho colti anche tra i docenti, i quali, influenzati spesso anche loro da divergenti sentimenti nei confronti della disabilità, si prefiggono aspettative differenti nei confronti dell'alunno, programmando gli obbiettivi e valutando i suoi risultati o positivi o negativi.

Mi piacerebbe tanto, in verità, che almeno l'Ambiente scolastico restasse estraneo a tali atteggiamenti, poiché, nella fattispecie, essi sarebbero mossi più da pietistica simpatia anziché da una obbiettiva valutazione. E aggiungo che, se l'atteggiamento dei genitori, anche se non condivisibile può essere giustificato, il mondo della Scuola non può lasciarsi suggestionare dalle emozioni, poiché i docenti devono essere sempre esenti da preconcetti e da condizionamenti esterni. Il mondo della Scuola, infatti, non può ricalcare gli errori di “una educatrice” che – indossando indegnamente gli abiti dello specialista/tiflologo – ha negato l'apprendimento del sistema di Lettura e di Scrittura in Rilievo ad una bambina, rinviando tale Acquisizione all'ultima classe della Scuola primaria, sol perché la bimba era priva della Vista. Valutazioni analoghe vanno non soltanto evitate, ma rimosse alla radice, per non rischiare di essere condizionati dall'emotività che comprometterebbe seriamente l'autostima dell'alunno e, conseguentemente, il suo apprendimento scolastico.

Simili opinioni non fanno altro che rafforzare un pregiudizio già alquanto diffuso nella società: quello che la minorazione visiva comporta realmente dei limiti e dei ritardi cognitivi nell'ambito dell'apprendimento. Si tratta di una visione esattamente opposta a quanto da anni cerco di sfatare mediante i miei scritti.

Per ritornare, intanto, al quesito iniziale, mi permetto sottolineare quanto sia importante per un bambino privo della Vista la destrezza bimanuale e la sua motricità fine, intesa nella sua funzione globale. Lo Scrivere, quindi – tanto che lo si apprenda con la “Tavoletta Braille” o con la “Dattilobraille” – richiede abilità manuali che il bambino avrebbe dovuto già Acquisire e potenziato durante gli anni della Scuola dell'infanzia. Per questa ragione consiglio di avviare l'alunno all'apprendimento della Scrittura, soltanto quando questi ha conseguito alcuni obiettivi imprescindibili, come le differenti forme di prensione, la destrezza bi-manuale, la scioltezza delle dita, l'Acquisizione dei concetti topologici sia nello spazio verticale sia sul piano orizzontale.

Sia ben chiaro che, per maturare tale abilità, non vi sono esercizi specifici o particolari prescrizioni; sarà sufficiente rendere partecipe il piccolo e coinvolgerlo in tutte le opportunità della vita quotidiana, anziché tenerlo lontano da esse. Se si vuole realmente, infatti, che il bambino divenga sempre più autonomo, sarà opportuno, direi doveroso, non già esentarlo da quelle attività normali per qualsiasi altro bambino, ma, semmai – comprendendo che l'esonero dalle attività familiari o scolastiche può impigrire e intorpidire la mente e creare quel senso deprecabile di dipendenza dagli altri – sarà necessario, invece, sollecitare ancor di più il piccolo per indurlo a partecipare attivamente e fattivamente, avendo attenzione di porlo nelle condizioni favorevoli sia per sperimentare conoscenze nuove, sia per sperimentarsi nelle consuete attività didattiche e nelle mille opportunità della vita quotidiana.

Sono certo che se si avrà il coraggio di Programmare percorsi educativi di “normalità” – anziché lambiccarsi il cervello per escogitare scorciatoie, franchigie ed esoneri, quali compensazione per la sua disabilità visiva – pian piano anche il nostro alunno conseguirà le strategie per trovare da sé le soluzioni migliori per affrontare e risolvere le difficoltà che l'Ambiente naturale, Sociale e la sua condizione di cecità, continuamente gli sottoporranno.

Con il passar del tempo, infatti, il bimbo apprenderà a rafforzare le abilità connesse con la motricità manuale, a spostarsi liberamente nell'Ambiente, a raggiungere gli oggetti e a compiere in assoluta Autonomia, alla pari di ogni altro bambino, tutte quelle attività quotidiane di normalità, come il mangiare, il lavarsi e il vestirsi senza l'aiuto di altri.

Se, poi, qualche docente dovesse domandare qualche sussidio più adatto e funzionale per potenziare e affinare l'“Educazione manuale”, sorprendendovi suggerirei di porre a disposizione dell'alunno un giochino largamente diffuso tanto nella Scuola dell'infanzia quanto nelle stesse famiglie. Si tratta di un passatempo semplicissimo e versatile, come il telaio del “coloredo” con la miriade di chiodini dalle differenti grandezze e forme.

So molto bene che i cultori della tiflologia tradizionale avrebbero consigliato sicuramente il “casellario Romagnoli”; ma i docenti, soprattutto quelli avveduti, intelligenti e perspicaci, non possono né devono restare condizionati o vincolati alla secolare tradizione, soltanto per un atto formale di ossequioso omaggio ad Augusto Romagnoli. Gli operatori scolastici, anzi, hanno il dovere di approfondire i metodi dei loro Maestri e, qualora si ritenesse conveniente, apportare i miglioramenti necessari.

Anch'io riconosco che Augusto Romagnoli è stato senza ombra di dubbio il più grande tiflopedagogista Italiano di tutti i tempi; un Uomo dal fenomenale talento e dalle straordinarie intuizioni didattiche e metodologiche. E come potrei disconoscerne la sua genialità, se anch'io mi sono Formato professionalmente nelle aule del suo prestigioso Istituto Statale di Specializzazione in Roma, nutrendomi dei suoi insegnamenti e della sua dottrina? Ma, Augusto Romagnoli è vissuto nella prima metà del secolo scorso, quando non erano ancora conosciuti materiali e sussidi che le industrie e le nuove tecnologie mettono oggi abbondantemente a nostra disposizione, anche per fini didattici.

Uno dei suoi sussidi più conosciuti – ideato attorno agli anni 1920 e che in omaggio al suo ideatore porta, appunto, il nome di “casellario Romagnoli – per lungo tempo è stato legittimamente ritenuto uno strumento di Lavoro straordinario ed io stesso, attorno agli anni '60 l'ho proposto ai miei alunni; ma in quegli anni non vi erano ancora altre valide alternative. Oggi, invece, a seguito delle ricerche scientifiche e tecnologiche degli ultimi decenni, ci consentono di utilizzare una vastissima gamma di sussidi didattici più appropriati ed efficaci impensabili un secolo addietro, soprattutto quando essi devono essere adoperati nella “Scuola di tutti”, ove è doveroso che il bambino privo della Vista non soltanto lavori assieme agli altri, utilizzando – ogni qualvolta ciò sia possibile – gli stessi materiali o gli stessi sussidi dei suoi compagni di classe.

Ora, invece, si tratterebbe di far utilizzare quel medesimo “giochino” per fini prettamente didattici, considerato anche che il sussidio non è affatto nuovo, poiché nei tre anni della Scuola dell'infanzia è stato sicuramente utilizzato per suscitare nei piccoli il piacere di “inventare”, di “creare” e “riprodurre” forme di oggetti bidimensionali.

La raccomandazione che segue non è né superflua né inutile, considerate le spiacevoli esperienze vissute da alcuni colleghi: si esorta, infatti, a prestare la massima attenzione affinché i chiodini, soprattutto quelli con la testina più piccola, non siano portati alla Bocca o introdotti nelle narici.

Gli esercizi – come è stato già precedentemente accennato – affinché risultino efficaci e, al contempo, producano occasioni di una inclusione effettiva del piccolo, si cerchi di farli eseguire assieme a tutti i bambini della classe.

Qualcuno potrebbe ritenermi una persona che non ha assolutamente cognizione dei ritmi e dei tempi frenetici del Lavoro che si compie in una prima classe della Scuola primaria. Nulla di tutto ciò, gentilissimi colleghi; assicuro, anzi, che, il riproporre il “telaio del coloredo” con finalità didattiche ben specifiche, potrebbe favorire alcuni aspetti essenziali della vita scolastica, come la corretta prensione della penna (o della matita) tra le dita, facilitare la comprensione spaziale del “limite” della Pagina di un quaderno o di un Foglio da Disegno entro cui Scrivere o disegnare, la conoscenza consapevole dei concetti topologici del “sopra” e del “sotto” e per ultimo, ma non certo perché meno importante, la comprensione della “quantità” e della “grandezza” dei numeri, della “corrispondenza” e dell'“astrazione”.